— The Hades Chapter: Interlude (Capitolo 12: Insolita quotidianità) —


Afrodite gettò le carte sul letto con un grugnito poco consono alla sua persona, poi si abbandonò alla spalliera con la schiena.
"Non ci capisco niente."
Cancer si affrettò a recuperarle per rifare il mazzo, con un cenno di dissenso della testa.
"Semplicemente /non vuoi capire/, che è diverso". Mischiò tra loro le vecchie carte usurate, dai bordi seghettati e le figure sbiadite.
Era tutta la notte che provava a insegnare ad Afrodite il gioco del poker, senza successo. Immancabilmente il compagno confondeva le regole e sbagliava qualcosa, per poi arrabbiarsi senza motivo e scaricare tutta la colpa su di lui. Le assi del letto cigolarono mentre quest'ultimo si alzava in piedi per sgranchirsi la schiena.
Cancer dedusse che si fosse stancato del passatempo.
"Quando posso andare a lavarmi? Sono stufo di sentirmi così... sporco." Afrodite lo guardò da sopra la spalla, con aria accusatrice. I capelli sciolti gli scendevano sinuosi lungo la schiena, arricciandosi sulle punte e sulla fronte. Indossava gli stessi abiti che aveva addosso quando l'aveva trovato, circa due giorni prima. Cancer li aveva lavati sotto il suo non poco insistente sollecito.
Sospirò, strofinandosi un occhio distrattamente.
"Non sei sporco, ti sei fatto la doccia ieri notte."
"Ma non c'era neanche il sapone." ribatté immediatamente Afrodite, voltandosi per fronteggiarlo. La camicia rosa era aperta sul petto, il fiocco slacciato che gli circondava il collo e scendeva sulla stoffa in modo sgraziato. Naturalmente non erano dettagli di cui Cancer si sarebbe curato, ma conosceva l'animo dedito all'avvenenza dell'amico d'infanzia.
Posò il mazzo di carte sul letto e si voltò verso di lui, piantando i piedi per terra.
"Ascolta, non posso ancora farti uscire. Te lo ricordi quello che ti ho detto, vero? A proposito del fatto che la tua presenza qui non è ammissibile? Posso portarti in bagno solo a ora tarda, sotto il mio controllo, dopo un'attenta ispezione in cui-"
"Lo so, lo so. In cui ti accerti che non ci sia in giro nessuno. Se anche ci vedessero insieme potrebbero semplicemente pensare che io sia un cliente come altri, no? Mica correrebbero subito alla conclusione che dormo da te." lo interruppe Afrodite, incrociando le braccia al petto con supponenza. Senza il rossetto sembrava più virile, con gli zigomi marcati e il viso severo. Cancer sostenne il suo sguardo per un po', irritato dal modo in cui s'era intromesso bruscamente mentre ancora finiva di parlare.
Scosse la testa: "Andiamo, la tua presenza qui diverrebbe di sicuro un pettegolezzo. Di bellezze simili se ne vedono poche in giro, e di solito non nel bagno pubblico degli uomini."
L'aveva affermato come un puro e semplice dato di fatto, ma Afrodite era ugualmente arrossito vistosamente.
"Che stupidaggine." commentò dopo un po', scostando lo sguardo. Cancer ridacchiò mentre il compagno tornava a sedersi sul letto, in un tonfo volontario che lo fece sobbalzare sul materasso.
"Poker?" fece poi, riprendendo il mazzo di carte in mano.
L'espressione che gli riservò Afrodite fu una chiara e innegabile negazione.
"Basta con quello stupido gioco. Insegnami... che ne so, sai leggere il futuro?"
Cancer rimase a fissarlo sbalordito, le mani ancora ferme nell'atto di mischiare le carte.
Dopo un po' scoppiò a ridere, rischiando di far cadere il mazzo per la violenza con cui gli spasmi scuotevano il suo corpo.
Il più giovane si crucciò, in quella sua tipica smorfia in cui piegava il labbro all'ingiù e aggrottava le sopracciglia con crescente fastidio.
"Dimentica la mia domanda."
"No, no..." commentò Cancer, quando si fu ripreso abbastanza da riuscire a parlare. "Adesso ti faccio vedere."
Lo sguardo di Afrodite si fece interrogativo mentre l'altro iniziava a disporre le carte di fronte a sé, con una padronanza del tutto fasulla. Se non ricordava male, per fare il quadro completo del futuro di una persona, bisognava utilizzarne sette.
"Cosa stai facendo?" domandò, incrociando le gambe davanti a sé e sporgendosi in avanti.
Cancer rimirò il proprio operato e sogghignò divertito.
"Ora le giriamo e scopriamo cosa ti riserva il futuro."
"Per cominciare avresti dovuto dividere il mazzo e farmi scegliere, cretino." lo rimbrottò Afrodite, con una punta di acidità nella voce. Era difficile indovinare se fosse risentito o semplicemente troppo sconcertato, ma perlomeno aveva un'aria interessata.
Cancer alzò le spalle: "Ti sembro una persona che sa leggere il futuro?"
"Mi sembri un idiota."
"Il futuro non sarà clemente con te, se ti ostini ad accanirti contro il cartomante."
Afrodite questa volta non riuscì a trattenere un sorriso, che cercò di mascherare con un'espressione di circostanza.
Cancer sorrise di rimando. Fece scorrere la mano su tutte e sette le carte coperte che aveva disposto in fila di fronte a sé. Le sue unghie toccarono le superfici lisce con pacatezza.
"Bene." disse infine, tornando sulla prima in fondo a destra.
Con un movimento veloce la girò, rivelando un asso di cuori. Che, stando a ciò che ricordava, doveva di sicuro avere qualcosa a che fare con l'amore.
Afrodite fissava la carta con un'espressione indecifrabile.
"Fortuna in amore." decantò Cancer, lanciandogliela. "Sei innamorato? Beh, andrà a gonfie vele."
"Molto specifico, grazie." Afrodite si rigirò la carta nelle mani, come assorto. Le sue dita affusolate sembravano vezzeggiarla, come facevano con ogni cosa che toccava.
Quando erano piccoli, il più giovane s'era preso una cotta per Cancer. Pendeva dalle sue labbra e faceva tutto ciò che lui ordinava di fare, incurante delle conseguenze.
Naturalmente ora non era così, ciascuno di loro era cresciuto e divenendo Cavaliere d'Oro aveva dovuto metter da parte ogni cosa che riguardasse il passato, in particolare i sentimenti.
Cancer era cambiato così tanto da non ricordare quasi più ciò che aveva provato un tempo, quando era leader del trio di ribelli del gruppo e aveva sulle spalle la responsabilità di proteggere i suoi due sottoposti, a costo di perdere la sua stessa vita. Qualcosa, in quel momento, gli suggerì che l'avrebbe fatto davvero.
E guardando Afrodite, con i suoi capelli lunghi, i vestiti stropicciati e il viso pulito, si sentì improvvisamente turbato: un altro uomo sarebbe stato il centro del suo universo, l'avrebbe guidato e lui l'avrebbe amato.
Voltò bruscamente la seconda carta, rivelando un re di picche.
"Questo vale come un due di picche, quindi niente storia d'amore."
Afrodite inarcò un sopracciglio: "E perché mai, scusa? Se non è il due di picche vuol dire qualcos'altro."
"Lo stabilisco io cosa vuol dire." Cancer gli lanciò un'occhiata truce.
Afrodite sbuffò: "Mi sono stancato anche di questo gioco."
E ciò detto si alzò in piedi, facendo di nuovo traballare il letto. Mosse qualche passo nella stanza, con le assi del pavimento che scricchiolavano e poi si avvicinò al comodino.
Al posto del bicchiere, ora stanziava su esso un vaso che Cancer aveva rubato appositamente per lui. Ogni sera Afrodite rinsaviva le rose che aveva creato, dando loro il nutrimento necessario per crescere. Era un bel bouquet, che emanava un profumo piacevole e dava un tocco di colore a quella stanza spoglia.
Cancer lo guardò mentre armeggiava con i fiori, facendo sì che una nebulosa giallastra li avvolgesse. I petali avvizziti ripresero immediatamente colore, la linfa vitale che s'irradiava in essi visibile a occhio nudo.
Era sempre uno spettacolo suggestivo, che ridestava in lui la necessità di evocare il proprio Cosmo con la semplicità con cui lo faceva Afrodite.
"Quando hai finito con quelle usciamo." disse, disfandosi di quel pensiero e guardandosi intorno. La luce dell'abat-jour non era diffusa abbastanza da illuminare tutta la camera. Fuori dalla piccola finestra a oblò, vigeva il buio pesto. Dovevano essere le tre o quattro del mattino e probabilmente a quell'ora non c'era più in giro nessuno.
"Va bene" rispose Afrodite, quando ebbe finito di occuparsi delle rose. Ora sfavillavano nel loro rosso vermiglio, con i petali dischiusi che sembravano velluto.
Cancer si alzò dal letto e si appostò sulla soglia della stanza, dove incrociò le braccia al petto e attese che Afrodite prendesse con sé l'occorrente per lavarsi. Non era molto: consisteva in un asciugamano che forniva la locanda e una spugna rinsecchita che il giovane provava incessantemente ad ammorbidire, senza successo. Mentre si avvicinava a Cancer era intento a raccogliere i capelli sulla testa. "Ho proprio bisogno di darmi una lavata" commentò, storcendo il naso.
Cancer alzò gli occhi al cielo. "L'ho capito, sai? Adesso fa' silenzio e vedrai che potrai finalmente farti la doccia."
Spinse la maniglia della porta e l'aprì appena. La luce della stanza s'allargò sul pavimento del corridoio in uno spicchio tenue, rivelando il vuoto più totale. I quadri sulle pareti erano l'unico arredamento: il resto del luogo era spoglio e lugubre.
"Andiamo." sussurrò Cancer, allungando una mano sul polso di Afrodite, che sobbalzò. Dopodiché si avventurarono nel corridoio, lasciandosi la porta chiusa alle spalle.




Cancer lo spinse nei bagni pubblici con una violenza tale da farlo inciampare. Afrodite si aggrappò di riflesso al porta asciugamani, una semplice asta arrugginita inchiodata al muro scrostato che gli evitò una caduta certa.
"Eccoci." L'altro si chiuse la porta alle spalle e Afrodite alzò la testa.
Le condizioni del bagno erano decadenti: in fondo alla stanza erano allineate tre docce, con le porte cigolanti in legno rigonfio. C'era un tanfo tremendo, specie vicino agli orinatoi adossati al muro l'uno accanto all'altro, senza nemmeno un separé a dividerli tra loro.
Le pareti erano bianche, sebbene l'umidità ne avesse inquinato il colore: ampi aloni color giallastro o grigio spento le attraversavano fino al soffitto.
Afrodite fu percorso da un brivido di disgusto che gli fece venire la pelle d'oca.
"Cosa c'è?" chiese Cancer, facendoglisi vicino. "Il bagno cinque stelle non è di tuo gradimento?"
"Mi basterebbe del sapone." replicò lui, avanzando nella stanza. L'aria era ancora satura di umidità, segno che chiunque si fosse lavato prima aveva fatto uso dell'acqua calda. Un brutto presentimento, come un sentore di allarme si accese nella sua mente, ma lui decise di non badarci.
Si gettò l'asciugamano sulla spalla e si avvicinò alle tre docce. Una di queste perdeva acqua, in un gocciolio costante che s'infrangeva per terra emettendo un suono fastidioso.
"Vorrei anche delle ciabatte." commentò, cercando di non pensare a quanti uomini avessero messo piede su quel pavimento, toccato quelle pareti, usufruito del doccino.
"Sì, e magari un accappatoio di seta, la musica incorporata e le lucine che cambiano colore?" gli fece eco Cancer, con quel suo mezzo tono sarcastico.
Afrodite alzò gli occhi al cielo: "Perché no?"
"Ieri hai fatto meno scenate."
"Ieri ero stremato."
La conversazione morì in quello stesso istante, perché il giovane entrò nella doccia chiudendo la porta con un tonfo. Non aveva alcuna voglia di iniziare a discutere con Cancer.
Con uno strattone si liberò dell'asciugamano, che gettò sulla parete separatoria.
"Fa' in fretta, okay? Starò io di guardia." disse l'altro, dopo un po'. Afrodite non rispose.
Si disfò velocemente dei vestiti, provando un senso di disagio nel percepire la propria pelle nuda ed esposta in un luogo così logoro e poco consono alla sua bellezza. Ogni cosa sapeva di muffa e impregnato. Con un sospiro prese il doccino, ignorando il calcare che lo incrostava e girò la manovella dell'acqua calda.
Il getto che lo colpì era gelido. Afrodite per la sorpresa gridò e arretrò contro la porta, scaturendo un tonfo sordo a contatto con essa.
Cancer vi si appoggiò immediatamente, facendolo sussultare: "Si può sapere perché diamine stai facendo tutto questo chiasso?"
Afrodite allontanò il doccino, puntandolo contro il muro: "L'acqua è fredda!"
Dall'altra parte udì un sospiro aggressivo: "E' sempre fredda, genio!"
"L'ultima volta era tiepida!"
Con le mani tremanti riavvicinò a sé il getto, dirigendolo sui propri piedi. Il presentimento che aveva avuto poco prima si era appena rivelato fondato. Fantastico: niente sapone, niente acqua calda, niente vestiti puliti. Da fautore della bellezza si stava trasformando in un decaduto privo di fascino.
Inspirò a fondo prima di fissare il doccino nell'apposito sostegno: ora l'acqua scendeva in un un fiotto conico, schizzando di tanto in tanto qualche goccia fredda.
Si voltò a controllare che Cancer non se ne fosse andato e vide sollevato le sue scarpe, attraverso la fessura ampia qualche centimetro che separava la porta dal pavimento.
/Va bene/ pensò, prima di immergersi sotto l'acqua. La pioggia di spilli lo colpì come se avesse potuto trafiggerlo. La pelle si tese immediatamente a contatto con il freddo, facendo sì che Afrodite irrigidisse i muscoli e stringesse i denti.
"Merda!" imprecò, lottando contro l'istinto di spegnere il getto. A ben pensarci, era piuttosto denigrante: un Cavaliere d'Oro che si lamentava dell'acqua fredda. Cos'era in confronto a ciò che aveva subito, visto, vissuto?
Quell'anomala reazione non era per niente da lui. O forse, in corrispondenza della vita tranquilla che conduceva ora, aveva incominciato a reputare problemi come quello il massimo delle sue preoccupazioni?
Lasciò scorrere l'acqua sul suo corpo, scacciando il pensiero con una scrollata di capo. Il nastro che aveva usato per legare i capelli gli scivolò sulle spalle, sciogliendoglieli così sotto il flusso.
Era sul punto di abbassarsi a raccogliere la spugna per strofinarsela sul corpo, quando un echeggiare di passi lo immobilizzò sul posto.
Sentì Cancer che mormorava "Oh cazzo." nello stesso istante in cui un vocione rimbombava tra le pareti del bagno: "Chi diavolo sta utilizzando le docce a quest'ora? Non lo sapete che è vietato?"
Afrodite si voltò allarmato verso la porta, proprio un attimo prima che Cancer la spalancasse per introdursi nella doccia. Non gli diede nemmeno il tempo di gridare perché lo fece indietreggiare fino a che non sbatté la schiena contro il muro e gli tappò la bocca con la mano, fulminandolo con lo sguardo.
In pochi secondi si ritrovò ingabbiato tra le sue braccia, mentre anche lui si irrigidiva sotto il getto freddo, che gli fece ricadere i capelli sugli occhi e rese progressivamente fradici i suoi vestiti.
Il rumore di passi si fece più vicino - sempre che non si trattasse del proprio battito cardiaco: Afrodite aveva difficoltà a distinguere altro rumore al di fuori di esso - e così anche la voce del gestore della locanda.
"Allora?"
"Ehm..." Cancer si schiarì la voce, voltandosi come se potesse vedere faccia a faccia il suo interlocutore.
"Eddai, vecchio, sono io. Oggi ho avuto una giornata pesante e non sono riuscito a farmi la doccia. Puoi chiudere un occhio? Faccio veloce e me ne vado."
La sua voce era roca, in tensione. Afrodite sentiva il cuore battergli nel petto con una frequenza quasi pari alla propria. La stoffa dei jeans sfregava contro la sua pelle nuda con languida fermezza. Deglutì, facendo fremere le dita di Cancer contro le sue labbra.
"Sono le cinque del mattino." borbottò il gestore, sospettoso.
Cancer alzò gli occhi al cielo. "Non vedo dove sia il problema."
"Il problema sta nel fatto che qui fuori c'è un cartello e sul cartello ci sono degli orari. Se ci tengo a farli rispettare ci sarà un motivo, no?"
L'uomo avanzò nella stanza e Cancer si spinse maggiormente contro Afrodite. Quest'ultimo dovette trattenere il respiro.
Improvvisamente lo sguardo gli cadde sulla fessura sotto la porta della doccia. Se il gestore si fosse avvicinato di più, avrebbe di sicuro notato la sua presenza. Cancer stava guardando nella stessa direzione, con un'aria allarmata.
"Ho capito, ho capito..." commentò distrattamente, facendo scivolare le mani sui fianchi di Afrodite in maniera altrettanto incauta. Questo ebbe uno spasmo sin troppo violento che gli costò un'occhiataccia di rimprovero. "Non userò più le docce oltre l'orario stabilito. Se vuoi per questa ti pago qualcosa in più, okay?"
"Qualcosa in più?" il tono dell'uomo si fece più interessato.
Cancer lanciò ad Afrodite uno sguardo complice prima di abbassare le mani sulle sue cosce e sollevarlo, facendolo sfregare con la schiena contro il muro. Gli divaricò le gambe abbastanza perché potesse tenerlo pressato tra il suo corpo e la parete. Afrodite si sentì percorrere da una vera e propria scossa, che partì dalle dita dei piedi e lo travolse interamente. Ora la sua pelle era elettricità statica, il respiro affannoso indicava la temperatura corporea e il palpitare del cuore. L'acqua fredda non lo tangeva più: improvvisamente tutto ciò che riusciva a percepire era Cancer, Cancer che lo sbatteva contro al muro, Cancer che si premeva sul suo corpo nudo e lo toccava senza il minimo riguardo. Per non cadere gli gettò le braccia al collo, ritrovandosi così pericolosamente vicino al suo viso. Cancer ridusse maggiormente le distanze, per riuscire a sussurrare: "Non una parola."
Naturalmente Afrodite non poteva parlare, ma se anche avesse potuto farlo era certo che sarebbe rimasto zitto.
"La metà della mia vincita serale." disse Cancer, rivolgendosi di nuovo al gestore della locanda. Nella voce c'era un accenno di affanno e anche le braccia tremavano vagamente, per lo sforzo di sostenere il peso del più giovane. Afrodite inspirò profondamente e gli allacciò le gambe intorno ai fianchi, per agevolargli il compito. Dovette mordersi il labbro per non lasciarsi sfuggire un sospiro roco, ma Cancer lo guardò comunque come se avesse appena rivelato la sua presenza all'uomo che stanziava là fuori.
Quest'ultimo parlò dopo un lungo silenzio di meditazione: "Ma sì dai, può andare. Mi raccomando non trattenerti qui troppo a lungo." I passi si fecero più lontani, fino a che non si udì il cigolio della porta che si apriva.
"Ci vediamo domani mattina per il pagamento." dopodiché il gestore se ne andò, lasciandoli con un tonfo sordo che rimbombò nel bagno.
Cancer e Afrodite rimasero a fissarsi nel silenzio, con l'acqua che scrosciava su di loro come una benedizione e non più come un tremendo fastidio. Il petto dell'altro si muoveva furiosamente contro il proprio, ingabbiandolo contro il muro e facendovi aderire maggiormente la schiena, per ogni volta che respirava.
Dopo un po' Cancer lo lasciò finalmente andare. Afrodite poggiò i piedi per terra con leggerezza, anche se barcollò vagamente quando fu di nuovo sulle sue gambe. Cancer lo prese subito per le spalle.
"Ti senti bene?"
"Io... sì." Afrodite scostò lo sguardo. "Mi dispiace che tu..." dovette interrompersi, perché la voce usciva frammentaria e spezzata.
"Non ti preoccupare per i soldi, li riguadagnerò con le vincite." Cancer si allontanò di qualche passo. I vestiti e i capelli erano zuppi, così come ogni lembo di pelle scoperta.
Afrodite sentì il suo sguardo su di sé e arrossì violentemente: "Perché non ti fai una doccia anche tu?"
Cancer ridacchiò: "L'ho appena fatta, tranquillo. Perciò... in effetti..." incespicò vagamente nelle sue stesse parole, come di solito non accadeva mai a un tipo sicuro di sé come lui. Afrodite sollevò lo sguardo per lo stupore e vide che stava guardando altrove.
"E' meglio che io esca." e ciò detto spinse la porta con la spalla, scomparendo al di là di essa e lasciandola a dondolare nei suoi stessi cardini.
Afrodite rimase immobile a fissare il punto in cui era scomparso. Le ginocchia gli tremavano e così faceva il suo intero corpo. Istintivamente circondò il busto con le mani, accarezzandosi le braccia con fare protettivo.
La sua mente vagò a quella stessa notte, quando Cancer gli leggeva i tarocchi. Ripensò all'asso di cuori e inaspettatamente gli venne da ridere: erano ancora lì.
Il suo passato, i suoi sentimenti, il desiderio di compiacerlo.
"Cancer?" chiamò, allungando la mano sull'asciugamano e porgendoglielo da sotto la porta.
"Eh? Cosa c'è?"
"Prendi." intimò Afrodite, muovendo il panno per farglielo notare. Dall'altra parte Cancer sembrava interdetto.
"Ma è l'unica cosa pulita che hai."
Il più giovane alzò le spalle: "Sei fradicio. E comunque, tu non lo sporcherai."
Sentì che Cancer muoveva qualche passo esitante, poi vide la sua mano sporgersi oltre la fessura, per afferrare l'asciugamano.
Le loro dita si sfiorarono e di nuovo fu energia pura.
"Grazie." mormorò Cancer, prima di prenderlo.
Afrodite si rialzò in piedi, sorridendo alla porta come se l'altro potesse vederlo.
"Di niente" rispose, appoggiando la schiena contro il muro e lasciando che l'acqua riprendesse a scorrergli addosso.




Libra scese a grandi passi i gradini che conducevano all'interno dell'Arena, addossandosi alle transenne separatorie con un tonfo.
"/Ahia/... ehy, Aldebaran!" si sbracciò nel tentativo di farsi notare dal più giovane, che però era già nel bel mezzo di uno scontro. Il suo avversario era basso e asciutto; l'armatura presentava diverse ammaccature e aveva una colorazione opaca. Niente di speciale, insomma. Aldebaran l'avrebbe sicuramente ridotto a un mucchio di ferraglia.
Libra s'accasciò sul parapetto con un mugugno, cercando di allontanare dalla testa il vago sentore di fame che gli stava facendo gorgogliare lo stomaco da quando s'era alzato.
Non aveva nemmeno avuto la decenza di indossare l'Armatura.
Una folata di vento gli ricordò che aveva effettivamente addosso solo la maglietta e i pantaloni leggeri che usava per dormire.
"Lasciami finire quest'incontro e poi ti offro una birra." tuonò Aldebaran, senza voltarsi. Libra sbatté le palpebre un paio di volte, prima di rendersi conto che stava parlando con lui. S'illuminò.
"Tu sì che sai come conquistarmi!"
"Mi dispiace, ma non sei il mio tipo." l'uomo si voltò a sorridergli da sopra la spalla. L'elmo che aveva sulla testa riluceva alla luce del sole, nonostante fosse attenuata dalle nuvole grigiastre che ammantavano il cielo.
Libra ridacchiò, scuotendo la testa come cenno di negazione: "E perché mai? Dammi una possibilità."
Aldebaran lo liquidò con un gesto sbrigativo della mano, per tornare a occuparsi dell'avversario. Non era capace di niente che potesse tenergli testa, come aveva già intuito Libra in precedenza. Armatura incosistente, mosse facilmente memorizzabili e poco offensive, zero carattere...
Quell'uomo era il motivo per cui lui aveva abbandonato le competizioni all'Arena. Certo, fruttavano il dovuto responso, ma per quello c'era Aldebaran. Libra si sentiva in colpa a far ricadere su di lui il dovere di mantenere entrambi, ma sembrava che all'altro gareggiare piacesse davvero.
Era veloce e pratico. I suoi movimenti erano imprevedibili, la sua strategia messa a punto perché l'avversario attaccasse sino allo stremo, indebolendosi da sé.
Un combattimento contro di lui l'aveva provato sulla sua stessa pelle e non aveva alcuna voglia di averci nuovamente a che fare.
Da quando si erano ritrovati, le cose erano andate in modo totalmente differente da come erano iniziate. Prima era Libra a non pensare ad altro che alla lotta, mentre adesso i ruoli s'erano invertiti.
Aldebaran gli aveva aperto gli occhi sull'importanza di quella nuova vita e ora lui faceva da spettatore ai suoi scontri, che avevano obiettivi meno sanguinari e sedativi rispetto ai propri.
La lotta si concluse velocemente. Il contendente cadde in terra, sollevando un cumulo di polvere e Aldebaran fu acclamato dai pochi spettatori che animavano la platea.
Il Cavaliere del Toro rimase a ricevere elogi fino a che l'entusiasmo non fu disperso, poi si allontanò dal campo di battaglia.
"Inizio a credere che sia scorretto fronteggiare Cavalieri così deboli con il nostro titolo." commentò, sfilandosi l'elmo dalla testa. I lunghi capelli violacei gli ricaddero sulla schiena.
"Fino a che ci sarà gente disposta a pagarti per ciò che fai, tu continua a farlo."
"E' un consiglio saggio, per essere quello di un vecchietto."
Libra storse il naso: "Ho capito. Mi stai prendendo in giro."
Aldebaran scoppiò a ridere e lui lo seguì un attimo dopo.
"Andiamo a berci la birra che ti ho promesso, su." intimò il primo, cingendogli le spalle per guidarlo verso la locanda.
Libra oppose resistenza: "Aspetta."
Il cielo s'era improvvisamente oscurato. Aveva visto catastrofi naturali generarsi e dissolversi in pochi secondi, ma la sensazione che aveva percepito in quell'istante trascendeva ogni fenomeno di sua conoscenza. C'era una strana tensione nell'aria, una pulsazione nemica che gli palpitò in vena come un amaro avvertimento.
Anche le dita di Aldebaran s'erano irrigidite contro la sua scapola. Ora l'uomo si guardava intorno con aria sospettosa.
"Cos'hai avvertito?" chiese piano, aggrottando le sopracciglia.
Libra non rispose: era qualcosa che non riusciva a descrivere. Lui, con i suoi duecento anni d'esperienza.
Improvvisamente le transenne di pietra vicino a loro si frantumarono in un boato, scaraventandoli a terra per l'impatto. Aldebaran, che indossava l'Armatura, ne uscì indenne ma Libra si ferì un fianco. Ancora sdraiato a terra abbassò lo sguardo sullo squarcio che s'era aperto sulla maglietta: il sangue aveva incominciato a spargersi in una macchia scura, nel punto stesso in cui partivano stilettate di dolore.
"Ah... cavolo."
"Stai bene?" Aldebaran si precipitò da lui. Sollevò il macigno che gli si era conficcato appena sotto il costato e lo gettò tra i detriti, dopodiché gli fece passare il braccio intorno alla vita per aiutarlo ad alzarsi.
Libra barcollò leggermente, ma si sostenne a lui.
"Cosa può essere stato?" domandò, guardandosi intorno. Le fitte di dolore al fianco gli avevano annebbiato la vista. Aldebaran lo tenne saldamente, concentrando nel palmo libero una quantità appena percepibile di Cosmo.
D'un tratto il terreno prese a tremare in modo quasi calcolato. Libra non impiegò molto ad attribuire il fenomeno ad una camminata: erano passi, pesanti e gravi.
Una sagoma mastodontica si fece strada all'interno dell'arena. Indossava un Armatura verde intarsiata in oro e decorata da uno zaffiro al centro del petto che mandava bagliori sinistri tutt'intorno. Posti sulle spalle, come un tattico elemento decorativo, c'erano due enormi scudi rotondi. L'elmo presentava corna lunghe e lineari che s'innalzavano al cielo.
"Chi diavolo è quello?" sibilò Aldebaran, il cui Cosmo aveva incominciato ad ardere.
Libra aprì la bocca per rispondere, ma il Cavaliere fu più veloce:
"Così vi ho trovato... /piccole pulci/."
Si voltò velocemente verso di loro, mostrando un ghigno spaventoso che gli deformava il volto. Gli occhi sembravano spenti, fissi nel vuoto... eppure stavano guardando proprio loro.
"Chi sei?" chiese Libra, stringendo i denti per contrastare la fitta di dolore che l'assalì, a causa del movimento brusco esercitato per parlare.
L'uomo scoppiò a ridere. La sua voce esplose nella zona come un fulmine, come lo scrosciare ardito della pioggia o lo sferzare del vento. Nel più fastidioso dei modi.
"Cavalieri d'Oro della Bilancia e del Toro, io sono Heracles. E sono qui per uccidervi."

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