— The Hades Chapter: Interlude (Capitolo 10: Domani sarà un giorno lungo) —


Una folata d'aria sollevò la sciarpa di Crystal, facendola roteare per una frazione di tempo. I capelli gli si scompigliarono e la giacca si alzò, ma lui la ricacciò giù mettendosi le mani nelle tasche.
Quel mattino faceva più freddo del solito. Il cielo, che la notte prima era così sgombro e limpido, ora era ammantato di nubi grigie e temporalesche. L'umidità lo faceva sentire malato, più di quanto realmente non lo fosse. Appena sveglio si era misurato la febbre e aveva scoperto che era del tutto scomparsa. Tuttavia, le ossa rimanevano indolenzite e il corpo sembrava appesantito da un torpore circostante.
Sulle spalle portava lo scrigno dell'Armatura del Cigno, così come i suoi compagni avevano addossate alla schiena le loro. Erano in piedi accanto a lui, a formare un circolo intorno a Kiki, come era già accaduto il giorno prima quando erano arrivati in Grecia. Passare da un luogo realmente esistente ad uno che solo gli adepti e i suoi abitanti potevano visitare, però, era più complesso. Kiki aveva trascorso tutta la notte a parlare con Freya, la sorella di Hilda. Quest'ultima, stando a ciò che aveva raccontato la giovane, era vittima di una malattia a causa della quale un despota le aveva usurpato il trono; secondo lei i due casi erano collegati e frutto di un complotto, per questo aveva mandato una loro sacerdotessa a investigare.
Il mistero così s'era infittito: dapprima le Armature d'Oro scomparivano nel nulla, poi al Grande Tempio Micene comunicava con loro come se fosse vivo suggerendo di raggiungere Asgard, ed infine la rappresentante di Odino veniva spodestata e la città finiva sotto il dominio di un uomo misterioso.
Sembrava una serie di coincidenze sin troppo provvidenziali.
"Bene, ragazzi, siamo tutti pronti?" domandò Kiki, che era disposto al centro tra loro. Indossava un cappotto e dei guanti scuri, ma stava rabbrividendo ugualmente.
Ci fu un flebile assenso da parte dei presenti, ciascuno, evidentemente, più concentrato sugli affari propri che su ciò che si stavano apprestando a compiere.
Crystal armeggiò con le dita a ridosso della giacca e la felpa, per cercare di afferrare il ciondolo che teneva lì sotto. Quando lo ebbe tra le mani gli conferì la giusta quantità di Cosmo sufficiente perché esso brillasse.
"Non c'è bisogno che vi ripeta quanto sia pericoloso ciò che ci stiamo apprestando a compiere." continuò Kiki. I suoi occhi avevano preso a baluginare.
"Anzi, ancor più che pericoloso: ci è ignoto. Siete pronti ad affrontare qualcosa di cui non conoscete, con certezza, nemmeno la natura?"
Ikki fu il primo ad alzare le spalle. Lui era quello meno vestito di tutti: sulla maglietta viola scuro indossava una semplice felpa. Sembrava scaldarlo quanto bastava, forse a causa della sua armonia con la propria armatura, che portava le divampanti caratteristiche dell'Araba Fenice.
Sirio e Crystal annuirono quasi in sincrono, seguiti da Andromeda. Era chino sulla sedia a rotelle di fronte a lui, sulla quale Pegasus sedeva composto. Lo aveva infagottato perché non sentisse il freddo, anche se aveva ugualmente la punta del naso e gli zigomi arrossati dal vento.
Crystal scostò lo sguardo dall'amico, incapace di sostenere una visione simile ancora a lungo. Non poteva accettare che quell'involucro moribondo fosse stato il compagno più esuberante e sgradevole del gruppo.
"Andiamo."
Kiki ora divampava di una luce viola e abbagliante. La sua potenza gli sollevava i capelli e li muoveva velocemente nell'aria.
Crystal chiuse gli occhi e cercò di ricordare le gelide terre Asgardiane: la tormenta che infuriava perenne, gli abeti innevati, la cittadina diroccata, le cime impervie dei monti...
In pochi attimi tutto divenne più nero dell'oscurità che si frapponeva di solito tra le sue palpebre e gli occhi, quando li chiudeva. Fu come se qualcosa l'avesse afferrato con gli artigli per lo stomaco e stesse cercando di trascinarlo via. Risucchiato e centrifugato in quel vortice di nero assoluto, si lasciò prendere fino a che non ebbe di nuovo cognizione di sé.
La prima percezione che ebbe, ancor prima di schiudere le palpebre, fu il gelo che gli sferzava la pelle. Lui era nato e aveva vissuto in Siberia per un lungo periodo della sua vita, ma il freddo di Asgard era, in qualche modo... diverso. Colpiva oltre le carni, lacerandole come fossero muri di carta vetrata e s'insinuava subito più a fondo, a paralizzare le ossa e frantumarle come un mucchio di ghiaccio sbrinato.
Quando aprì gli occhi la luce rimbalzò sulla neve, dardeggiandogli nelle pupille con una veemenza tale da farlo lacrimare. Si asciugò in fretta le lacrime dal viso e poi si guardò finalmente intorno.
La foresta Asgardiana li circondava nella sua maestosa imponenza. Erano accerchiati dai sempreverdi, con i loro rami ammantati di bianco e i tronchi scuri che mettevano radice nel terreno cosparso di ghiaccio. Il sentiero su cui si trovavano sembrava condurre direttamente alle mura della città, che si intravedevano da quella distanza.
Pareva fosse trascorso un sacco di tempo dall'ultima volta che avevano messo piede in Asgard: lì avevano combattuto e ucciso, incrementando la loro forza e macchiandosi allo stesso modo di sangue. Spesso Crystal pensava che il suo destino di Cavaliere fosse ingiusto.
Al suo Maestro una simile condotta di pensiero non sarebbe piaciuta affatto: lui prediligeva la forza e l'intelletto, voleva che il suo allievo mettesse da parte sentimenti ed emozioni per non intralciare il talento puro o l'ardire del Cosmo.
Come aveva potuto crederlo possibile? L'ultima volta che si erano visti Crystal l'aveva tenuto stretto tra le sue braccia, morente e disperato. E l'aveva amato con ancora più intensità, più di quanto non l'avesse sempre fatto, dal primo giorno, dal momento in cui gli aveva detto: "Non avere tempo per l'amore."
Forse di tempo non ne aveva mai avuto, ma d'amore Crystal traboccava.
Il suo turbinare di pensieri fu bruscamente interrotto da un tonfo, che attirò immediatamente la sua attenzione. Di fronte a loro, Kiki era caduto in ginocchio e ansimava rumorosamente.
Sirio corse subito verso di lui e si chinò per poterlo guardare negli occhi.
"Cosa succede, Kiki?"
"Sto... bene..." il ragazzino si sollevò, accettando la mano che il più grande gli stava porgendo. Quest'ultimo lo sostenne per le spalle.
"Forse è meglio che si riposi, ha compiuto uno sforzo enorme!" s'intromise Andromeda, con voce agitata. Non si era mosso di un millimetro dalla posizione che aveva occupato prima di partire, sempre fermo dietro la carrozzella di Pegasus, con una mano che tirava la lunga sciarpa avvolta intorno al collo. Oltre a questa indossava una giacca di pelle marrone e, sotto ad essa, un maglione color panna a collo alto. I pantaloni erano semplici jeans, stretti sulle sue gambe magre.
Crystal si costrinse a distogliere lo sguardo: "Sono d'accordo con Andromeda." disse, provando alla base dello stomaco un principio di senso di colpa nei confronti di Kiki, di cui non s'era minimamente curato. Il ragazzo stava facendo davvero tanto per loro, ma la maggior parte delle volte lui sembrava darlo per scontato.
Ikki si accucciò accanto al più piccolo e gli mise una mano sulla spalla: "Prima sarebbe meglio se ci spostassimo da qui." Gli lanciò un'occhiata furtiva, quasi complice e poi si concentrò su tutti gli altri: "Ho un brutto presentimento."
In quello stesso istante, qualunque fosse stato il timore di Ikki, il problema venne a galla.
Il terreno sotto ai loro piedi si sfasciò, frantumandosi in detriti che scoppiarono in ogni direzione. Crystal si gettò di lato appena in tempo per riuscire a schivarli.
"Cosa-" rotolò su un fianco e colpì con forza lo scrigno dell'Armatura dietro di sé, affinché quest'ultimo si spalancasse. Fu immediatamente circondato da una luce abbagliante, che lo avvolse sino a inglobarlo. Sentì i vestiti che gli si strappavano di dosso con brutale violenza e poi, di nuovo, metallo che si appiccicava alla pelle come un marchio indelebile, stigmate atte a conferirgli il giusto potere per affrontare la battaglia. Quando il bagliore si diffuse, aveva indosso l'Armatura del Cigno.
Il terreno tremava e franava, con gli alberi che oscillavano pericolosamente e scrollavano la neve nei dintorni. Le stalattiti di ghiaccio cadevano con frequenza e velocità pericolose, quasi fossero guidate da una forza superiore.
Crystal vide Andromeda che barcollava nel tentativo di restare saldo alla sedia a rotelle di Pegasus e quest'ultimo che pendeva da un lato, sul punto di scivolare in terra.
"Andromeda!" lo chiamò, con tutta la potenza che aveva in corpo.
Si sentì immediatamente pervadere dal Cosmo, in una sensazione piacevolmente bruciante e disgustosa allo stesso tempo; più eccedeva, più s'espandeva dentro di lui e più sentiva di volerne esser colmo o di potersene disfare in un sol colpo, fino all'ultimo recesso.
Era la condanna di chi aveva un corpo ancora troppo debole, ma una potenza incontrollata da domare insita dentro di sé.
Si scagliò immediatamente sulla carrozzella, parandoglisi di fronte e generando una lastra di ghiaccio appena prima che un colpo gli si infrangesse contro. Crystal sentì i muscoli contrarsi per la tensione, ma non smise di alimentare lo scudo che aveva creato.
"Porta Pegasus lontano da qui!" gridò, senza nemmeno voltarsi. Il vento aveva iniziato a infuriare e ora la sua voce sembrava quasi un sussurro inudibile.
Di fronte a lui Ikki combatteva con indosso l'armatura della Fenice. Dal terreno sbucavano tralci e radici che ondeggiavano minacciosi nell'aria. Il busto delle piante era estremamente gonfio, pulsante, quasi ricolmo di vita. Ikki sferrò le Ali della Fenice, incendiando la maggior parte dei suoi ostacoli e poi si precipitò ad aiutare Sirio, che nel frattempo stava parando a fatica i colpi. Alle sue spalle Kiki giaceva in terra, il viso esangue e gli occhi strabuzzati.
D'un tratto qualcosa lo colpì di lato, cogliendolo di sorpresa e sbalzandolo lontano, tra i cespugli. Non fu sorpreso di sentirsi penetrare in più parti del corpo, riscoprendo negli arbusti le spine ormai note dei rovi.
"Cazzo!" ringhiò, mentre il sangue si dipanava dalle ferite e andava a macchiargli la tuta azzurra sotto all'Armatura. Il colpo gli aveva annebbiato la vista e la testa gli girava pericolosamente. Inoltre, non riusciva a muoversi senza che le spine si conficcassero maggiormente nella carne.
Provò a bruciare il Cosmo per congelare le lesioni e scampare al dolore, ma non aveva forza a sufficienza.
In quell'istante una risata echeggiò nell'aria: sembrava stesse grattando la gola del suo proprietario, infima e meschina.
"Bene bene, e così voi sareste i temibili Cavalieri di Bronzo? Un ragazzino senza Armatura, un moribondo, una femminuccia e... e poi?" la sua voce era squillante e acida, al punto da riuscire, in qualche modo, a sovrastare il turbinio della corrente e penetrare l'udito.
Una sagoma si frappose tra Crystal e il campo di battaglia, ostruendogli del tutto la vista. Era un uomo grosso, la cui armatura amplificava la massa. Chino su se stesso, sembrava un vecchio folle, viscido e rancido quanto la sua voce.
Sentì Sirio che ordinava a Kiki di allontanarsi, Ikki che gridava il nome di Andromeda. Poi un tralcio di radice giallastra prese ad avvolgerlo intorno alla caviglia e a trascinarlo verso di sé, lentamente, come se volesse godersi la visione del suo corpo che veniva squarciato dai rovi.
Crystal gridò, cercando di rimanere ancorato al cespuglio, mentre le spine gli graffiavano la schiena e facevano zampillare il sangue sulla neve bianca.
"Ma certo, certo!" prese a gridare il nemico, da qualche parte nella zona. "Vi userò tutti per i miei esperimenti!"
Crystal venne agganciato anche per l'altra caviglia. Ebbe uno spasmo che lo fece contorcere di dolore, a contatto con i rovi, ma poi riuscì a distinguere la consistenza in contatto con una gamba da quella che faceva pressione sull'altra.
"Catena di Andromeda!"
Andromeda si gettò sulla radice senza indugio e la frustò senza pietà con la sua catena, fino a che essa non fu ridotta in pezzi. Dopodiché corse verso Crystal e si chinò su di lui.
"Crystal! Crystal stai bene?" urlò subito, cercando di prenderlo ma decidendo di fermarsi con le mani a mezz'aria, probabilmente per timore di fargli del male.
"Ehy... Andromeda." Crystal fece per sollevarsi, ma il dolore lo trafisse come mille aghi, costringendolo a rimanere fermo.
Il volto dell'amico era sgomento. Aveva i capelli scompigliati, l'armatura scalfita e le catene gli tremavano tra i palmi, causando uno sfrigolio rumoroso.
Un pensiero balenò immediatamente nella mente di Crystal: "Aspetta, Pegasus? Dov'è?"
Andromeda sorrise nervosamente: "Una delle mie catene lo sta circondando" sollevò un braccio per fargli vedere l'estremo dell'arma "E Sirio lo protegge con lo scudo."
Crystal si stupì quando il sollievo lo pervase al punto da farlo sentire meglio. Proprio a lui, che s'era arreso all'idea che Pegasus fosse ormai perduto per sempre.
Facendo appello a tutte le sue forze si allungò in avanti, abbastanza da riuscire ad afferrare la mano di Andromeda. Questo sussultò e lo guardò immediatamente negli occhi, stupito.
"Vai... a combattere. Non perdere tempo con me. Cercherò di uscirne da solo."
L'espressione di Andromeda si fece sconvolta: "Cosa? No!"
"Andromeda." insisté Crystal, stringendogli maggiormente la mano.
Un tronco si scagliò tra loro, colpendo le loro mani e sollevandoli in aria per poi schiantarli bruscamente sul terreno, uno vicino all'altro. L'impatto fu così tremendo che Crystal temette di aver perso la facoltà di respirare. Annaspò per terra, scavando con le dita nella neve fino a che non riuscì a sputare una buona quantità di saliva. Lo stomaco, per lo sforzo, sembrò rivoltarglisi in corpo. Le membra erano un fascio di nervi, dure e tremanti. Andromeda, riverso sul terreno accanto a lui, non dava segni di vita. Dalla testa si propagava una pozza di sangue.
Crystal si sentì morire.
"Bene bene, vedo che non vi va di opporre resistenza. Tanto meglio."
Il Cavaliere che li aveva attaccati mosse qualche passo verso di loro, rivelandosi. Aveva la pelle ricoperta di rughe e un naso adunco che tagliava in due il volto, conferendogli un aspetto maligno. Le ombre delle fronde degli alberi disegnavano su di lui sfumature grottesche.
Crystal fece per alzarsi da terra, ma l'uomo sollevò un braccio, col quale teneva per il giubbotto il corpo di Pegasus. Dentro di lui qualcosa si incrinò così fulmineamente da tranciargli di nuovo il fiato. Provò a gridare, ma ne uscì un lamento strozzato.
L'uomo ghignò: "Mi piace il vostro tormento, ragazzini." con un gesto repentino gettò a terra Pegasus, che rotolò nella neve. "Vi struggete così tanto per una cosa da niente."
Crystal si allungò verso il compagno, ma una stilettata alla spina dorsale lo inchiodò sul posto.
Richiamò allora il suo Cosmo, senza ottenere però un risultato migliore: tra le mani crepitò della brina, che tuttavia divenne immediatamente acqua e gli fece gonfiare i palmi già violacei.
"Dove... dove sono..."
"I tuoi amici? Li ho lasciati stesi a terra laggiù, non ti preoccupare. Mi interessate tutti e non posso permettermi di lasciar scappare nemmeno il più insignificante di voi!" rispose il Cavaliere, scoppiando poi in una fragorosa risata che squillò nelle orecchie di Crystal come un requiem mostruoso.
Poi l'uomo si avvicinò, facendogli ombra. Si abbassò ad afferrarlo per i capelli e lo sollevò con un gesto brusco e privo di grazia. Crystal si sentì strappare ogni giuntura.
"Molto piacere, marmocchio, io sono Fafnir. Spero che la nostra convivenza sarà pacifica."
Qualcosa lo colpì violentemente allo stomaco, e Crystal perse definitivamente i sensi.




Andromeda cadde sul pavimento, colpendolo violentemente con la schiena. In risposta ad un simile tonfo tutti i muscoli divennero rigidi, amplificando il dolore che aveva provato.
Pegasus lo afferrò immediatamente per i capelli, attento a non tirarli più del normale, ma con presa salda e decisa: "Non ci siamo."
Un pugno nello stomaco lo fece rotolare per terra fino a che non ebbe sbattuto contro il muro.
Il respiro gli si spezzò in un grido strozzato e poi il suo corpo s'afflosciò, come privo di scheletro.
"Pe...gasus..."
Andromeda fece per tirarsi su. Aveva la vista annebbiata, puntini neri che danzavano davanti agli occhi e la gola arsa. Respirava a grandi boccate, sentendo il sudore che gli colava dalle tempie e lungo la spina dorsale. La stanza, allestita come un dojo moderno, sembrava ruotare fino ad amalgamarsi in una spirale di colori spenti: la bocca dello stomaco rispose all'immagine suscitandogli un conato di vomito.
"Andromeda" rispose il più grande, avanzando verso di lui. Era scalzo e senza armatura. I pantaloni lunghi erano arrotolati sui polpacci, così come lo erano le maniche della maglietta aderente sulle sue spalle. I muscoli rilucevano di sudore e sangue fresco.
Andromeda deglutì.
/Non farti distrarre/ si disse, strisciando con la schiena contro il muro, nell'atto di rialzarsi. Pegasus nel frattempo lo stava braccando come un predatore fa con la sua vittima. Camminava lentamente, guardandolo dall'alto verso il basso, con un'espressione di puro compiacimento stampata in volto. Del ragazzo stupido e allegro che tutti conoscevano, non v'era la minima traccia.
Ora Pegasus era un Cavaliere e intendeva combattere con Andromeda ad armi pari.
Quando i due si allenavano insieme, inizialmente, il primo non faceva altro che trattenersi, senza quindi sfogare la sua vera forza contro il compagno.
Dopo un po' di tempo Andromeda se ne era reso conto e aveva discusso con Pegasus perché rivedesse i suoi metodi di combattimento.
"Non avere pietà." gli aveva ordinato, senza l'accenno della minima esitazione nella voce.
E Pegasus non ne stava avendo. L'aveva già riempito di calci e pugni, fracassandogli le ossa con le nocche e stremandolo con le continue spinte dei talloni.
Lui, dal canto proprio, non era ancora riuscito a sfiorarlo con un dito: faceva parte del suo metodo, in un certo senso. Incassava e memorizzava, incassava e calcolava, incassava e, alla fine contrattaccava.
/Adesso!/
Con un grido si lanciò contro Pegasus, che probabilmente non se l'aspettava. Caddero per terra e rotolarono sul pavimento in uno scricchiolio d'assi di legno e ossa che compivano movimenti azzardati, fino a che non trovarono il muro come ostacolo. Sbatterono violentemente contro esso e Andromeda finì schiacciato dal corpo di Pegasus, che intanto gli aveva afferrato i polsi.
Rimasero a fissarsi con gli occhi sbarrati e i lineamenti contratti dalla tensione, ansimando l'uno sul viso dell'altro.
"Credevi che non l'avessi previsto, eh?" ringhiò Pegasus, con voce roca. Il sudore che gli imperlava la fronte colò sulle guance arrossate di Andromeda, che sussultò.
Il cuore aveva iniziato a battergli furioso nel petto. Aveva le gambe ingabbiate tra quelle di Pegasus, le braccia costrette sul pavimento a causa della presa sui polsi e il suo viso a pochi centimetri dal proprio. Non doveva demordere.
Con un movimento fulmineo gettò la testa in avanti. Le loro fronti si scontrarono, creando un rimbombo nella testa di Andromeda che gli fece credere di essere sul punto di perdere i sensi. Pegasus vacillò debolmente, allentando vagamente la presa, ma ritornò subito padrone di sé.
"Piccolo bastardo."
"Pegasus!" Andromeda gli lanciò un'occhiata indignata, ostentando un dissenso abbastanza convincente da mascherare la reazione che in realtà, quell'insulto, gli aveva suscitato.
Ma non ricevette alcuna risposta. Improvvisamente l'altro gli liberò i polsi e lo agguantò per la vita, sollevandolo con una veemenza tale da far scontrare i loro bacini in uno colpo secco.
Ad Andromeda mancò il fiato. Sentì le dita di Pegasus sulla parte inferiore della schiena, rigide e salde, e il suo respiro sulle labbra, caldo e profondo. Le sue cosce sode e inflessibili lo tenevano fermo con una violenza tale da fargli male.
Il più grande sorrise: "Ciao ciao, Andromeda".
E le posizioni cambiarono di nuovo. Pegasus lo spinse per terra, facendolo atterrare su un fianco.
In pochi secondi Andromeda si ritrovò con la testa schiacciata sul pavimento e il compagno seduto sulla schiena, che gli immobilizzava i polsi con una sola mano.
Sbalordito, non poté fare altro che annaspare e contorcersi, nel tentativo di divincolarsi. A causa del peso di Pegasus non riusciva a respirare. La sua calda massa corporea gli intorpidiva le membra e l'unico segnale a mantenere attivo il corpo rimase la fitta di dolore lancinante che proveniva dalle braccia, costrette dietro la schiena in una posizione decisamente irregolare.
"Dannazione."
"Che ti avevo detto? Ciao ciao." gli fece eco Pegasus, ora molto più rilassato di prima. Il tono di voce era addirittura scherzoso.
Irrigidì la presa: "Se non riesci a evitare i miei colpi, non riuscirai neppure a colpirmi."
"Lo so!" gridò Andromeda, dimenandosi. Aveva le lacrime agli occhi per lo sforzo, i capelli umidi di sudore e la vista che continuava a sfocarsi.
Era Pegasus, il problema. Il suo pensiero gli martellava il cervello, lo bombardava nel petto, gli esplodeva in mezzo alle gambe e lo distraeva da tutto il resto: attacco, difesa, affondi, calci, pugni... ogni cosa convergeva in lui.
Si sentì miseramente debole. Aveva insistito tanto perché Pegasus facesse sul serio con lui e ora mandava tutto all'aria per colpa della sua stupida cotta. Che razza di Cavaliere era, se non riusciva nemmeno a combattere per una causa che lui stesso sosteneva?
Smise di agitarsi solo perché si sentiva i polmoni in fiamme. Ansimò contro il pavimento, percependo il proprio respiro ardente che gli infuocava la bocca e le narici.
Pegasus sospirò: "Basta così per oggi, Andromeda."
Le cosce si rilassarono contro i suoi fianchi e le mani lo liberarono da quell'intricata posizione.
Poi il più grande si alzò, facendolo finalmente respirare. Andromeda ebbe un fremito a causa della ritrovata libertà, che gli rese i muscoli immediatamente leggeri.
Tuttavia non si sollevò da terra, ma strinse i pugni maledicendosi di nuovo per la mancanza di concentrazione.
Pegasus gli girò intorno fino ad arrivare di fronte a lui e si accucciò per tendergli la mano: "Avanti, prendi. Ti tiro su io."
Andromeda scosse la testa. Non voleva. Non avrebbe mai voluto mostrarsi debole di fronte a Pegasus. Doveva dimostrargli di essere in grado di combattere, di difendersi, di... difenderlo.
Se non fosse stato capace di proteggerlo, in caso di necessità, non se lo sarebbe perdonato.
Per questo, quando sollevò la testa, aveva un'espressione furiosa in volto.
I muscoli scattarono mossi dall'adrenalina. In un attimo afferrò Pegasus per la maglietta, con una forza tale da squarciarla. Non se ne curò minimamente e lo spinse per terra, facendolo rovinare sul pavimento. Quest'ultimo non ebbe il tempo di urlare che Andromeda gli fu addosso. Gridò forte, forte fino a gonfiarsi i polmoni e a sentirli esplodere dentro di sé e poi iniziò a colpirlo a mano aperta, sul viso, sul petto. Alternò tra loro i manrovesci, i pugni e i graffi in un circolo senza fine. Ovunque trovasse carne da colpire, lo faceva. I muscoli di Pegasus erano contratti e rigidi, tanto che ad un certo punto dovette fermarsi per il dolore alla mano.
Il più grande respirava affannosamente, con i capelli scompigliati e gli occhi sbarrati. Aveva un'occhio nero e la guancia gonfia, là dove Andromeda l'aveva ripetutamente schiaffeggiato.
Quando quest'ultimo si rese finalmente conto di ciò che aveva fatto, impallidì. Gli occhi erano fissi su Pegasus, come se non riconoscesse su di lui il proprio operato.
Spaventato, fece per indietreggiare ma l'altro l'afferrò per un polso, con dura ostinazione.
"An...dromeda." Faticò leggermente a parlare, per colpa del fiatone.
Andromeda provò a divincolarsi dalla presa, ma Pegasus lo trascinò più vicino a sé e lui gli inciampò addosso. Petto contro petto, si guardarono di nuovo. Il ritmo dei loro cuori era quasi in sincronia, nel selvaggio palpitare. Lo squarcio nella maglia di Pegasus faceva aderire la sua pelle a quella di Andromeda, la cui maglietta scollata ne metteva in evidenza una parte.
Erano sporchi, sudati e arrabbiati, forse l'uno con l'altro o forse con loro stessi.
Però Pegasus, inspiegabilmente, sorrise. E fu come una meravigliosa doccia rilassante, un calmante, un rimedio a effetto lenitivo per ogni ferita.
"Proprio a fine incontro, eh? Tu giochi sporco."
"Pegasus-"
Il più grande lo zittì, premendogli un dito sulle labbra.
"Il nemico non ti risparmierà mai, quindi riservagli lo stesso trattamento. Sei stato..." fece una pausa, come per trovare le giuste parole da dire: ".../Uoh/. Ecco cosa sei stato."
Andromeda non riuscì a trattenersi dal ridere. Pegasus dovette trovarlo fastidioso, perché scostò immediatamente la mano dalla sua bocca con una smorfia.
"Uoh?" ripeté, come se non avesse sentito bene.
"Beh, sì, che è anche... sinonimo di fantastico." rispose Pegasus, accarezzandogli distrattamente i capelli. In quell'istante qualcosa, nel cuore di Andromeda, arse d'euforia. Per quello sfioro fugace, per le sue belle parole, per il suo viso, che rimaneva bello anche se tumefatto e per il suo cuore, che batteva forte contro il proprio.
Se poteva fargli male, poteva anche proteggerlo. Ed era ciò che da quel giorno in poi avrebbe fatto.


/"Te lo prometto, Andromeda... io ti proteggerò"/


Sembrava che gli avessero spezzato la testa in due. In essa, rimasugli confusi di ricordi lontani vorticavano come se volessero sfuggirle. Un tempo era stato Pegasus a promettergli che l'avrebbe protetto per sempre. E Andromeda lo voleva. Lo voleva così tanto che, nel tempo in cui Pegasus non avrebbe potuto proteggerlo, sarebbe stato lui a difenderlo.
Ma era veramente andata così?
Cosa stava succedendo?
Perché improvvisamente, mentre credeva di morire, si sentiva così libero e leggero?

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