— The Hades Chapter: Interlude (Capitolo 8: Il linguaggio dei fiori) —


Quel mattino ad Asgard faceva davvero freddo. Cancer si strinse nelle spalle, ricercando calore con le mani che sfregavano nelle tasche dei jeans, senza particolare successo.
Il suo respiro si condensava nell'aria in nuvolette, che andavano poi dissolvendosi nell'atmosfera.
Era tutto un fremito: il suo corpo tremava in spasmi incontrollati e la pelle s'era ridotta a una dura corazza di ghiaccio. Se solo avesse potuto indossare qualcosa di più pesante della sua stupida canottiera sdrucita, l'avrebbe fatto volentieri.
"Merda" ringhiò, sputando il sigaro smangiucchiato che aveva tenuto in bocca spento fino a quell'istante. Rubarlo a uno dei clienti della locanda era stato un gioco da ragazzi, ma non aveva ancora trovato un accendino da estorcere a qualche disgraziato. Masticarlo con i denti stava iniziando a infastidirlo, specie a causa del sapore di tabacco che aveva preso a propagarsi.
"Puah" enfatizzò, passandosi le dita sulla lingua. Notò solo in quell'istante che una donna sulla mezza età lo stava fissando. Fu tentato di inveirle contro, ma poi ricordò che dare nell'occhio non rientrava esattamente nelle sue priorità e continuò a camminare.
Stava facendo una ricognizione in giro per Asgard, alla ricerca di qualche locanda che avesse prezzi modici e, soprattutto, non lo conoscesse. Nell'ultima settimana si era creato una certa fama nei bassifondi della città e il suo nome era molto spesso accompagnato da insulti o soprannomi dispregiativi. Se fosse stato in grado di indossare l'Armatura del Cancro avrebbe tappato la bocca a chiunque parlasse di lui in quei termini, ma non c'era modo che le Vestigia rispondessero al suo volere.
Avrebbe potuto cavarsela con la sua sola forza fisica, ma ciò avrebbe implicato combattere a volto scoperto, e lui non voleva rischiare che la sua unica sistemazione andasse perduta a causa di una rissa.
Già la notte precedente, per colpa dell'intromissione di Ioria, aveva perso la partita di carte in corso e di conseguenza tutto il profitto che ne avrebbe ricavato. Ora si ritrovava a dover pagare l'alloggio alla locanda senza un centesimo in tasca.
"Posso sempre rifarmi questa notte." commentò tra sé e sé, guardandosi intorno e svoltando l'ennesimo vicolo. Anche questo, come tutti gli altri, era costeggiato da abitazioni di diversi colori, con i balconi situati in alto e le finestre adorne di tendine al piano terra.
A quell'ora non si trovava molta gente in giro. Dei pochi che passeggiavano per le vie la maggior parte erano donne con in braccio bambini, vestite perlopiù di stracci e con i capelli raccolti disordinatamente sulla testa. Cancer non dava particolarmente peso alle loro condizioni: era stato addestrato in un luogo in cui disfacimento e corruzione raggiungevano livelli ineccepibili.
All'età di ventisei anni poche cose erano in grado di toccarlo o impressionarlo, anche adesso che era rinato dall'Ade, dopo aver trascorso un tempo inquantificabile rinchiuso in una statua e privo di qualunque percezione che non fosse quella di ricordare. Ricordava ogni giorno i peccati commessi in vita, ed essi logoravano il suo animo colpevole minuto per minuto.
D'un tratto, un gruppo di persone ammucchiate in un angolo attirò la sua attenzione. A giudicare dai vestiti erano contadini sottopagati, mercanti falliti con le giacche a brandelli e i pantaloni rattoppati.
Dicevano delle cose, con le loro voci rozze e sgraziate, ma da quella distanza Cancer non riusciva a sentirli. Dopo essersi lanciato un'occhiata alle spalle, avanzò circospetto.
Man mano che si avvicinava iniziò a distinguere delle imprecazioni. Erano rivolte a qualcosa, o qualcuno.
"Allora, chi se la porta a casa?" domandò uno di loro, toccando col piede una sagoma abbandonata in terra.
"Lo farei io, ma poi cosa dico a mia moglie?" rispose un altro, chinandosi in avanti.
"Sei davvero disposto ad aspettare? Violentiamola adesso."
Si levò una risata comune, gutturale e scoordinata.
/Tipico atteggiamento/ pensò Cancer, inarcando un sopracciglio. /Delle teste di cazzo/.
Conosceva bene quel genere di persone: violenti, disoccupati, infelici, poveri. Una categoria che li comprendeva tutti e sembrava ricondurre il suo ideale di salvezza nell'alcool, nella droga o nelle donne. In particolare, per gli uomini, approfittare di quelle indifese o che non li consideravano minimamente li faceva sentire, in qualche modo... forti.
"Che schifo." commentò.
Fu così inaspettato che l'intera combriccola si voltò verso di lui, in un sussulto collettivo. Avevano quasi tutti i volti scavati, la barba incolta e cicatrici di diverse ampiezze che deformavano i loro tratti in maniera grottesca.
Le loro espressioni, in un primo momento spaurite, si rilassarono immediatamente quando lo videro. Un uomo grassoccio, con la canottiera unta e i pantaloni sbracati si fece avanti con un sorriso: metà dei suoi denti erano marci.
"Ah amico, sei uno di noi eh? Niente male." commentò, soppesandolo dalla testa ai piedi come se volesse mangiarselo di lì a poco.
Cancer respinse l'impulso di vomitare per quella che, a tutti gli effetti, gli era sembrata un'avance. "Uno di voi?" disse piuttosto, elargendo un ghigno.
Un secondo dopo gli era già di fronte, e gli stava piantando un pugno sotto il mento. L'uomo sputò a causa dell'impatto e ribaltò gli occhi all'indietro, ma Cancer gli impedì di cadere in terra, sorreggendolo per il collo slabrato della canotta cenciosa. Intorno a loro si levarono delle urla, ma lui non ci fece caso.
"Stammi a sentire, pezzo di merda. Per niente al mondo mi ridurrei ad assoggettarmi a /uno di voi/, intesi? Se solo provi-" le parole gli morirono in gola nell'esatto istante in cui la cricca si dissipò per dar man forte all'uomo. Concentrandosi su di lui avevano finalmente lasciato perdere la persona stesa in terra e lui era riuscito a vederlo.
Era riverso sulla pancia, i lunghi capelli che si aprivano scompigliati sul terreno sporco. La camicia rosa era stropicciata, e su essa erano ben visibili le impronte delle scarpe lasciate dai calci degli uomini.
"Afrodite." mormorò piano, come una formula imparata a memoria o una nenia impossibile da dimenticare.
Poi il suo corpo si mosse da solo. Lanciò il grassone da un lato e si gettò tra i due tizi più vicini. Uno era allampanato e smunto, mentre l'altro aveva una corporatura piuttosto nella norma. Cancer saltò oltre e poi si voltò di slancio, piantando un calcio negli stinchi di entrambi e facendoli rovinare a terra. Li calpestò senza ritegno e si avventò sull'uomo successivo. Questo teneva in mano un accendino e glielo puntava contro con altezzosità. Cancer digrignò i denti: "Cazzo." inveì, strappandoglielo di mano con un colpo d'unghie. Prese l'oggetto tra le mani e fece ruotare la rotella zigrinata col pollice, innescando la fiamma. "Questo mi serviva."
Senza esitazione, lanciò l'accendino sul gruppetto ancora in piedi.
Rimirò con particolare piacere i loro volti terrorizzati lampeggiare sotto al tremolio del fuoco, prima che questo divampasse tra loro. Come un'esplosione, la maglia del contadino più vicino s'incendiò. Lo sfrigolare ardente che provocavano le fiamme sul suo corpo venne immediatamente occultato dalle grida di sgomento sue e dei suoi compagni, che lottavano per sfuggire alle vampate.
Si muovevano frenetici, si toglievano i vestiti e per ogni passo che stavano facendo verso il deterioramento, in lui s'accese un'eccitazione senza pari.
D'un tratto il momento di gloria finì. Qualcuno lo afferrò alle spalle e gli circondò il collo con il braccio. A giudicare dalla massa, doveva trattarsi dell'energumeno che l'aveva invitato ad unirsi a loro.
"Hai finito di scherzare, piccoletto?"
La sua voce era come carta vetrata. Cancer sentì il suo fiato fetido contro al collo e questa volta non riuscì a trattenere un conato. La presa si fece più stretta e lui ansimò strozzato, cercando di imboccare quanta più aria potesse.
Di fronte a sé, la scena divenne annebbiata. Le fiamme infuriavano ancora, ma avevano perlopiù intaccato i sacchi della spazzatura e la staccionata in legno, che segnava il limitare del vicolo.
Anche gli uomini che aveva atterrato con un calcio si stavano rialzando e avevano negli occhi una scintilla omicida, che Cancer riconobbe anche con la vista ridotta.
Provò a dimenarsi, ma un pugno nello stomaco lo fece piegare in avanti, senza fiato. Il grassone lo ritrascinò indietro e fece ancora più pressione.
/Brucia, Cosmo/ pregò allora Cancer, cercando di artigliare il braccio dell'aguzzino, ma riscoprendo i muscoli come assopiti. /Brucia, brucia, brucia/
"Brucia, mio Cosmo!"
La voce chiara e cristallina proruppe nel caos come un fulmine nel pieno della tempesta.
Cancer l'avrebbe riconosciuta ovunque, ma proprio per questo non riuscì a credere alle proprie orecchie. D'improvviso un impatto enorme lo sollevò a mezz'aria e poi il terreno si mosse in un unico, veloce flettersi. Provocò un'onda d'urto che schiantò tutti per terra, lui compreso. Per l'impatto rotolò sulla schiena, sferzandosela. Dolorose stilettate lo attraversarono dalla testa ai piedi, ma non se ne curò minimamente. Si portò piuttosto le mani al collo e respirò forte, finalmente libero. Nella zona si sollevò una nebbiolina giallastra, che aveva l'odore afoso delle serre. Il fuoco, che avrebbe dovuto espandersi, iniziò lentamente a regredire.
Attraverso la foschia si profilò una sagoma.
"Luridi fetenti." sibilò, con un tono di voce così tagliente che avrebbe potuto affettare i banchi caliginosi. "Sono un uomo."
Afrodite si slanciò oltre il suo stesso attacco con una grazia e una maestria attribuibili solo al Cavaliere dei Pesci. In qualche modo riusciva a sembrare elegante anche con i capelli spettinati, il rossetto sbavato e la camicia lacerata. Piroettò su se stesso e lanciò una rosa nera, che si conficcò immediatamente nel petto di un avversario. Ferì allo stesso modo tutti gli uomini che lui stesso aveva precedentemente schiantato in terra sino ad arrivare di fronte a quello che per poco non aveva strozzato Cancer. Quest'ultimo si sollevò sui gomiti per guardare meglio.
L'energumeno poggiava con la schiena su un macigno. La testa vi si era schiantata contro e da essa gocciolava incessante il sangue, in un viluppo stomachevole.
Aveva un occhio gonfio e dalla bocca colava un filo di saliva.
Forse avrebbe voluto dire qualcosa, ma Afrodite non glielo permise. Fece comparire nella sua mano una rosa rossa e poi se la portò alla bocca, con precisione. Cancer l'aveva visto agire in quel modo parecchie volte, quando si allenavano insieme al Grande Tempio.
Suo fratello Capricorn aveva sempre posseduto l'offensiva maggiore, ma anche il terribile difetto di temere se stesso più dell'avversario. Afrodite lo sapeva e per questo, sfruttando il suo debole a proprio favore, riusciva a vincere gli incontri. Lo faceva sempre allo stesso modo: premeva la testa sulla fronte dell'avversario e poi lo incantava.
Cancer lo guardò mentre mormorava incessante una litania senza voce. Da quella distanza non poteva udirlo, né ricordava di cosa recitasse. Era trascorso tanto tempo dall'ultima volta in cui lui, suo fratello e Afrodite s'erano allenati insieme e ormai stava incominciando a dimenticare quella quotidianità.
Quando il giovane ebbe finito, la nebbia intorno a loro si dissipò. L'uomo di fronte a lui aveva chiuso gli occhi e non emetteva alcun rumore.
Il campo di battaglia sembrava il resoconto di una guerra. I corpi degli aggressori giacevano in terra privi di sensi, e l'odore di bruciato permeava ancora tutt'intorno a loro.
Afrodite si voltò finalmente verso di lui e gli sorrise. "Cancer" disse, flebilmente. "Il tuo Cosmo..." ma non riuscì a finire di parlare, perché il suo corpo oscillò pericolosamente e cadde in terra.
Cancer si alzò in piedi di scatto e corse da lui, sollevandolo tra le sue braccia e scostandogli la terra dal viso.
"Afrodite!" lo chiamò, inclinandogli bruscamente il viso e premendo forte le dita sul suo collo. Il palpitare furioso del sangue nelle arterie lo fece sospirare di sollievo.
"Grazie..." mormorò l'altro. Cancer trasalì e spostò lo sguardo sui suoi occhi, ora socchiusi e lucidi. "Allora stai bene, pezzo di idiota." ringhiò, tirandogli un colpetto sulla testa.
Afrodite accennò un sorriso, che risultò tirato sul viso esangue.
"Ti eri preoccupato?" chiese, e sotto ai polpastrelli di Cancer il battito cardiaco accelerò.
Quest'ultimo aprì la bocca per rispondere, ma poi la richiuse, incapace di trovare le parole adatte. Sentì che la mano di Afrodite stava sfiorando la sua, e quando abbassò lo sguardo vide che gli stava porgendo la rosa rossa, la stessa che aveva usato nella battaglia.
"Te lo ricordi ancora il linguaggio dei fiori?" domandò, la voce ora arrochita dallo sforzo.
Inaspettatamente tutt'intorno a loro iniziò a raggupparsi un mucchio di gente, bambini che urlavano alle madri di precipitarsi a vedere e uomini che intimavano di stare lontani. Cancer si guardò intorno e vide la folla che gremiva il luogo, come insetti attirati dai rimasugli di una pietanza appetitosa. Erano stati richiamati dal fumo, che spirava oltre il vicolo andando a spargersi nelle vie adiacenti. Se li avessero fermati, sarebbe stata la fine per entrambi.
"Sì, boh, non lo so" rispose ad Afrodite, prendendo la rosa che gli stava porgendo e infilandosela in bocca con una smorfia. Poi lo prese in braccio, emettendo un verso di fastidio per lo sforzo e facendolo sussultare. Con la coda dell'occhio avvistò un viottolo sulla loro destra e si preparò ad imboccarlo.
"Ma adesso andiamocene via da qui."



Cancer aveva attraversato diverse strade di corsa, senza mai fermarsi o voltarsi indietro. Afrodite ad un certo punto gli aveva allacciato le braccia intorno al collo per bilanciare il peso, ma non sembrava essere servito a molto.
"Mettimi giù" insistè di nuovo il giovane, sporgendosi all'indietro per rimarcare il concetto. Cancer per poco non perse l'equilibrio. Incespicò nei propri passi, barcollando per un paio di metri prima di ristabilire il giusto bilanciamento.
Quando fu di nuovo stabile sulle sue stesse gambe, fulminò Afrodite con lo sguardo.
"Sei scemo?" bisbigliò, avvicinando il viso al suo. La rosa rossa che aveva tra le labbra si stagliava tra loro come un ingombrante incombenza.
Afrodite si voltò dall'altra parte: "Posso camminare da solo. E poi anche tu hai subito la tua dose di danni, dovresti-"
"Ahh certo, certo adesso ti metti anche a fare lo sbruffone, eh? Razza di ingrato."
"Dovresti riposarti." concluse Afrodite, con gentilezza e una punta di risentimento.
Cancer rimase fermo, con la bocca aperta, per un po'.
Quando si decise a chiuderla lo fece solo per sbuffare.
"Guardami le spalle." ordinò, facendo un cenno con la testa. Afrodite si allungò oltre la sua spalla, socchiudendo gli occhi e ispezionando la via che si allungava dietro di loro.
"Non ci segue nessuno."
"Meglio non giurarci troppo." ribatté Cancer, riprendendo ad avanzare. Questa volta adottò un'andatura meno frenetica, specie perché il corpo di Afrodite lo appesantiva parecchio.
Si guardò comunque bene dal porgli domande riguardo il suo attuale peso, per non rischiare di innescare uno scontro tra Cavalieri d'Oro nel bel mezzo di Asgard.
Dopo un po', arrivarono nella piazza principale della città.
La statua di Odino si ergeva ampia e imponente al centro di essa, mentre tutt'intorno erano sparse bancarelle d'ogni genere, i differenti venditori che urlavano a squarciagola le offerte del giorno. I tendoni erano a righe bianche e rosse, rosa acceso o verde chiaro, gialle e blu, in un colorato insieme festoso che sapeva di musica, aromi fragranti e inverno.
Afrodite si agitò di nuovo tra le sue braccia: "Mi RIFIUTO di attraversare la piazza in questo modo, quindi adesso mettimi giù." Cancer lo accontentò con un'immediatezza che probabilmente l'altro non si aspettava.
Quando fu coi piedi per terra traballò di qualche passo e per poco non cadde di nuovo. Cancer lo afferrò immediatamente per le spalle: "E' così che cammini?" lo incalzò, sogghignando.
Afrodite scosse la testa, come faceva sempre quando era risentito e abbattuto. Se c'era una cosa che non sopportava era non riuscire là dove era convinto di potercela fare.
"Mi hai messo giù troppo in fretta, non me l'aspettavo."
Come per dimostrare quanto appena affermato mosse qualche passo, questa volta nel più completo equilibrio.
"Va bene" acconsentì Cancer "Ma cerchiamo di non distanziarci troppo. Se attraversiamo la piazza non ci resta che superare due vicoli, poi saremo alla locanda in cui alloggio."
Quando ebbe finito di parlare si sfilò la rosa dalla bocca - che gli rendeva difficili le conversazioni - e se la ficcò nella cintura dei pantaloni. Probabilmente era una soluzione ridicola, ma non gli importava più di tanto.
Camminarono tra la folla, mentre bambini urlanti sfrecciavano loro accanto e donne indaffarate si spostavano da una bancarella all'altra, alla ricerca delle proposte più economiche da accaparrarsi. C'erano pochi uomini, probabilmente perché la maggior parte di essi durante il giorno lavorava.
Cancer si guardava intorno con disinteresse, fino a che l'occhio non gli cadde sul compagno, che avanzava di qualche passo più avanti rispetto a lui. La camicia pendeva per metà fuori dai pantaloni bianchi a vita alta, piena di buchi e segni di sporcizia. Le scarpe - che prima non aveva notato - sembravano in pelle, e lo rendevano più alto grazie ai tacchi appena pronunciati. I capelli lunghi gli accarezzavano la schiena armoniosi. Era, nell'insieme, una persona attraente. E probabilmente se ne stava rendendo conto l'intera piazza. Notò solo in quell'istante gli sguardi fugaci delle giovani campagnole e quelli invece più pronunciati ed espliciti delle donne alle bancarelle. Prima che una qualsiasi delle potenziali minacce potesse adescarlo, si affrettò ad accostarsi a lui.
"Allora. Da quanto tempo ti trovi ad Asgard?" domandò, fingendo noncuranza. Afrodite, che sembrava perso a guardare un'esposizione di fiori variopinti, si riscosse.
"Uh? Mi sono svegliato qui qualche ora fa." rispose, accennando un sorriso.
Cancer batté le palpebre: "Qualche... ora fa?"
"Qualche ora fa." confermò il giovane.
Cancer smise di camminare e lo guardò come avrebbe potuto guardare il Grande Sacerdote quando aveva scoperto che si trattava di Saga. Esterefatto.
"Mi stai dicendo" cominciò, inducendo il più giovane a fermarsi: "che sei tornato in vita questa mattina stessa e lo stai accettando come se fosse un'eventualità qualunque?".
Afrodite lo guardava con un'aria sperduta, come se non cogliesse il reale motivo della sua perplessità. Intorno a loro si erano fermate un paio di ragazze, e poco più avanti una coppia che li fissava. Esasperato, Cancer afferrò Afrodite per il polso e lo trascinò via.
"Che palle" imprecò, "Non si può avere nemmeno un po' di privacy."
"Privacy?" gli fece eco l'altro, stridulo, ma lui non rispose.
Lo condusse per uno stretto passaggio che costeggiava interamente la piazza, urtando di tanto in tanto qualche donna con indosso un grembiule o delle sedie abbandonate in mezzo alla strada senza nemmeno scusarsi. Su quel lato dello spiazzo erano concentrate botteghe e osterie. In quel particolare momento della giornata la zona era poco frequentata: la folla si raccoglieva maggiormente al centro, dove stanziava il mercato.
Cancer si chiese perché non avesse imboccato subito quella scorciatoia. Afrodite, dietro di lui, cercava di tenere il passo come poteva. Il suo polso magro vacillava nella sua presa salda.
Non capiva. Il giorno in cui s'era risvegliato dalla morte, disteso in un sobborgo di Asgard, Cancer aveva provato uno sconfinato senso d'angoscia. Era confuso, smarrito e debole; non aveva ricordi della sua effettiva nascita, ma aveva presunto che in qualche modo fosse stata simile a quel brusco ritorno alla realtà.
Aveva impiegato giorni a sistemarsi, ad accettare il proprio corpo redivivo come concreto, a fare in modo che l'Armatura del Cancro decidesse di ricongiungersi al suo Cosmo, senza successo.
Erano state giornate mute e prive di percezione, quasi fosse ancora dentro la statua a lui dedicata, quando l'idea di poter toccare qualcuno non sembrava altro che un'utopia sbiadita.
Lanciò un'occhiata ad Afrodite, che arrancava alle sue spalle con evidente difficoltà.
Sembrava in forma, consapevole di quanto stava accadendo intorno a lui.
Cancer rallentò notevolmente l'andatura, per permettergli di riprendere fiato.
"Si può sapere" iniziò questo, ansimando. Aveva la fronte sudata e i capelli si erano appiccicati alla pelle, arricciandosi leggermente sulle punte. "Perché devi sempre essere così brusco?"
Si passò un dito sul labbro, rimuovendo il rossetto che ormai era andato sbiadendosi e poi si divincolò dalla sua presa.
Cancer lo mollò senza troppi complimenti, poi alzò le mani in segno di resa.
"Ci stavano fissando tutti."
"E' perché sono bello." ribatté Afrodite, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Il primo ridacchiò: "Certo, soprattutto in questo momento." Lo guardò da sotto le sopracciglia inarcate, mentre il più giovane si indignava.
"Ho visto tempi migliori, è vero." si gettò una ciocca di capelli azzurri alle spalle, con disinvoltura. "Ma la bellezza sta proprio nel rimanere incantevoli seppur sporchi e malandati."
Cancer scosse la testa, come per scongiurare quel principio di discussione.
Alzò lo sguardo e vide di fronte a sé l'imbocco di un vicolo a lui noto. "Ehy, bellezza" lo canzonò, indicandogli la via.
Afrodite assunse un'espressione indecifrabile, ma Cancer non lo lasciò parlare:
"Se resisti ancora dieci minuti, arriveremo sani e salvi alla locanda."
Davanti a loro si slargava una stradina acciottolata, fiancheggiata da abitazioni a due piani dalle condizioni fatiscenti. Il viottolo maleodorava. Sui fianchi della strada s'addossavano cumuli di neve sporca e in corrispondenza del tombino s'espandeva una pozza d'acqua putrida.
Afrodite avanzò immediatamente. "Dieci minuti? Ho resistito per mesi privato dell'onore e della dignità. Dieci minuti in confronto non sono niente." esordì, voltandosi appena per lanciargli un'occhiata da sopra la spalla. Cancer si affrettò a seguirlo.
"Beh" annuì, incrociando le braccia sul petto.
"Come darti torto?"



La stanza della locanda era piccola e spoglia. Dentro c'erano solo una branda e un comodino scadenti e le pareti erano ingombre di muffa. La finestra era a oblò, dalle dimensioni ridotte e con i vetri appannati.
Tuttavia, Cancer non se curava particolarmente. Aveva un tetto sulla testa, questo bastava. Anche se quella ferma assicurazione sarebbe dipesa dalle giocate di quella sera.
Afrodite si abbandonò sul letto senza nemmeno chiedere il permesso, emettendo un concitato sospiro d'appagamento. Cancer chiuse a chiave la porta, poi si appoggiò al muro.
"Che posticino, eh?" commentò.
Afrodite storse il naso: "In effetti non lo attribuirei a un Cavaliere d'Oro."
Distese le lunghe gambe di fronte a sé e si inarcò per sbadigliare. "Però io non avrei di certo saputo trovare di meglio." aggiunse poi quando ebbe finito, come timoroso di averlo offeso.
Cancer fece di no con la testa.
"Ti ho trovato steso a terra in mezzo a dei malviventi che volevano abusare di te... devo darti ragione."
"Ehy" lo rimproverò Afrodite, aggrottando le sopracciglia. Il viso aveva ripreso un po' di colorito. Attraverso la rigidità dei lineamenti, trapelava solo un evidente stremo.
I due fecero silenzio per un po', guardandosi intorno. In un angolo della stanza era abbandonata nel suo scrigno l'Armatura d'Oro del Cancro. Il più giovane la indicò.
"Non ci posso credere." disse, alzando poi lo sguardo su Cancer.
Lui si voltò, ignorandolo. Non voleva spiegargli che in realtà le Vestigia si rifiutavano ancora di unirsi a lui, dopo tutto quel tempo. Un conto era comprendere e accettare le proprie debolezze, un altro renderle note a qualcuno.
"Sei più stupito di vedere che ho riconquistato la mia Armatura di quanto non lo sia per il fatto di esser ritornato in vita." rispose, sviando leggermente l'argomento.
Afrodite sbuffò: "Ancora con questa storia? E' stato il tuo Cosmo."
Cancer lo guardò: "Il mio... Cosmo?"
L'altro annuì con convinzione. I suoi occhi erano fissi nei suoi, ma in qualche modo sembrava che stessero guardando oltre.
"Il tuo Cosmo, così familiare e dirompente, mi ha tranquillizzato. Ho compreso che questa nuova vita è un'opportunità, non importa da chi provenga o chi ne sia il fautore. E' un'occasione di rivederti in carne ed ossa, così come sarà di sicuro motivo di moltissimi altri avvenimenti. Mi va bene, lo capisci? E' molto meglio che vivere per sempre da statua."
Scese di nuovo il silenzio. Afrodite si morse immediatamente il labbro e alzò gli occhi al cielo. Cancer non riuscì ad attribuire alcun senso logico a quella reazione.
Dal canto proprio dovette sbattere le palpebre e riflettere tra sé e sé per un tempo incalcolabile prima di trovare qualcosa da dire. Afrodite era riuscito là dove lui ancora non aveva speranze. Come poteva accettare la sua nuova vita, quando non aveva niente a che vedere con quella precedente? Un tempo aveva compiuto delle scelte, portato a termine cause, sostenuto la regola che la giustizia risiedesse nell'animo dei forti, e lo aveva fatto da Cavaliere d'Oro.
Ora, spogliato della sua Armatura e rinato in un luogo ostile, privo della percezione del proprio Cosmo e incapace di avvertire la voce di Atena o la collocazione dei suoi compagni... non sapeva cosa fare.
"Ho capito. Sei sempre stato superficiale." disse, alzando le spalle.
Afrodite fece una smorfia di dissenso. Aveva iniziato a districare i lunghi capelli dai nodi e le sue dita longilinee si muovevano aggraziate tra le ciocche.
"Ti sei fatto crescere la barba?"
"Eh?"
Cancer piegò la testa di lato e lo guardò storto. Come in automatico, si portò una mano sul mento.
Afrodite ridacchiò. "Questa è superficialità. Io invece ti ho detto qualcosa di profondo, ma evidentemente sei ancora convinto che gli ideali altrui siano stupidi. Stai bene, comunque."
C'era una nota di amarezza nella sua voce, che a Cancer non sfuggì. Per la prima volta scorse un'ombra di tristezza in quegli occhi che non guardava mai.
Si passò una mano tra i capelli, sospirando gravemente.
"Senti, resta qui quanto ti pare, ma non lasciare la stanza per nessuna ragione al mondo. Se l'oste scoprisse che nascondo qualcuno abusivamente ci caccerebbe entrambi e io non ho altro luogo in cui andare. Vuoi fermarti? Nessun problema, però nessuno dovrà sapere della tua esistenza."
Afrodite sollevò lo sguardo, stupito. Teneva ancora un ciuffo di capelli tra le mani e aveva accavallato le gambe in una posa elegante.
"Cosa... io?" s'indicò con un dito sul petto, l'espressione stralunata.
Cancer roteò gli occhi: "C'è forse qualcun altro di fronte a me, seduto sul mio letto?"
Questo gli fece venire in mente una cosa, che si affrettò a sottolineare prima che l'altro potesse rispondere: "Ah, a proposito: tu dormi per terra, ciccio."
Afrodite, che ancora sorrideva per aver ricevuto il consenso di restare, si fece immediatamente serio.
"Cancer." ringhiò, abbassando la testa. Successivamente prese a inveirgli contro, ma lui non gli diede retta. Si sfilò la rosa rossa dalla cintura e la sistemò nel bicchiere di legno poggiato sul comodino. Rigirò il gambo senza spine nell'acqua patinosa, facendola increspare e rimirando il proprio riflesso che si frastagliava in essa.
"... e quindi ho diritto ad una sistemazione comoda!" concluse Afrodite, le mani sui fianchi.
"Cancer, mi stai ascoltando?"
"Ah? No." rispose lui, rinvenendo dal suo incanto momentaneo. Il più giovane assunse, se possibile, un'espressione ancora più minacciosa della precedente. Cancer lo guardò: sporco, disordinato, infuriato e scomposto.
Quella sera avrebbe dovuto vincere il profitto necessario, si disse. Non ne andava più della sua sola vita.

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