— The Hades Chapter: Interlude (Capitolo 5: A quale prezzo?) —


Libra fissava il soffitto sopra di sé come se fosse la cosa più interessante del mondo. Naturalmente non era così, ma si stava rivelando un'attività utile a occupare il tempo che non riusciva a spendere dormendo. Sospirò, allungando una mano di fronte a sé e rimirandola nel buio. Solo la luce della luna che filtrava dalla finestra gli concedeva di vedere qualcosa nella stanza scura.
Il respiro pesante di Aldebaran, nel letto accanto al suo, dettava incerto il ritmo del tempo.
In qualche modo riusciva addirittura a essere rilassante, ma non abbastanza per prendere sonno.
Libra si tirò a sedere, sollevando con sé le lenzuola, che gli scivolarono sulle cosce. Indossava dei pantaloni della tuta piuttosto larghi, che andavano a stringersi con degli elastici solo sulle caviglie. I capelli spettinati gli solleticavano il collo e le guance. Sopra aveva una maglia a mezze maniche di diverse taglie più grande della sua, che aderiva alle sue forme là dove erano più accentuate. Faceva freddo, ma non aveva altro da mettersi addosso. C'era una sola coperta di lana in dotazione per chi prenotava la stanza, così lui e Aldebaran avevano deciso di fare a turno e usufruirne una notte a testa. Questa volta era toccata all'altro.
Come se pensarci avesse improvvisamente risvegliato le sue percezioni fisiche rabbrividì.
Le imposte erano chiuse, ma era come se ogni tanto qualche spiffero riuscisse a sfuggire a quella gabbia di legno e vetro scadenti, insinuandoglisi sotto la pelle.
Perlomeno, pensò per rincuorarsi, aveva trovato un posto in cui alloggiare.
Il giorno in cui s'era imbattuto in Aldebaran, costretto a fronteggiarlo nell'arena di Asgard, erano accaduti diversi avvenimenti che avevano scombussolato completamente la sua rinnovata routine quotidiana.
Come previsto si erano battuti, anche se alla fine il secondo non aveva mosso un dito. Libra si era avventato su di lui - senza scargliargli contro tutta la forza di cui era munito, certo, ma con una potenza ugualmente notevole - e Aldebaran aveva incassato i suoi colpi, uno dietro l'altro, fino a che il suo avversario non aveva stramazzato al suolo esausto. Era durata fino al tramonto, poi anche lui aveva ceduto sotto alla mole di attacchi ricevuti. La lotta si era conclusa con un pareggio, che aveva mandato il pubblico su tutte le furie. A quanto pare non gradivano le dispute senza vincitori.
Libra, al ricordo, sorrise. Erano trascorsi solo pochi giorni, eppure si sentiva già una persona differente. Da quando era tornato in vita non aveva fatto altro che lottare, senza nemmeno pensare a cibarsi o riposarsi. Alla fine dell'incontro Aldebaran lo aveva portato di peso in una locanda, dove si era premurato che mangiasse fino a scoppiare prima di cacciarlo a letto e lasciarlo lì fino al suo risveglio, che era avvenuto il mezzogiorno seguente.
Successivamente gli aveva raccontato che aveva sentito delle voci su di lui, sul fantomatico Cavaliere della Bilancia, che stava affrontando sfide su sfide.
"Ti conosco" gli aveva detto, sorridendo malinconico. "So che quando non hai uno scopo ti getti a capofitto nella lotta, perché credi sia lenitiva, che guarisca ogni male. E' stato così anche con Shion, con Kanon..."
A Libra piaceva Aldebaran. Era schietto e, quando affrontava argomenti scottanti, lo faceva con estrema naturalezza. Forse era per questo che riusciva a non turbare mai il suo interlocutore.
Dopo aver ascoltato le sue motivazioni, gli aveva chiesto di rimanere con lui. Non perché si sentisse solo, o avesse bisogno di colmare il suo vuoto. Voleva solo far chiarezza sulle vicende di cui entrambi erano protagonisti e, con l'aiuto di un'altra persona, aveva pensato che il suo lavoro sarebbe stato notevolmente agevolato.
L'altro, naturalmente, aveva accettato di buon grado.
Stare con Aldebaran si era rivelato rilassante. Gli lasciava i suoi spazi, non si interessava eccessivamente dei suoi affari privati e non si lamentava mai quando Libra spendeva il suo tempo a oziare, piuttosto che ad agire come entrambi avevano pianificato.
Libra gli lanciò un'occhiata: dormiva su un fianco, dandogli le spalle. La coperta gli era scivolata di dosso, arrivando a toccare terra parzialmente. Doveva aver freddo, perché di tanto in tanto trasaliva a causa dei brividi.
Con un sospiro si alzò in piedi. I loro due letti erano piuttosto vicini, perciò dovette muovere solo qualche passo per raggiungerlo. Sotto di lui le assi del pavimento scricchiolarono, ma Libra non se ne curò. Era difficile svegliare Aldebaran.
Sin da quando era piccolo, aveva un sonno pesantissimo.
Si chinò piano, prendendo la coperta di lana. Rimase fermo a fissarne la trama, distinguibile a fatica nel buio a causa delle ombre che ne occultavano il disegno. Era a quadri, il tipico decoro nordico. Si ricordò della Grecia, del clima mediterraneo che accompagnava stagioni fredde come l'inverno senza che ci fosse bisogno di armarsi di coperte o cappotti per resistergli. Aveva trascorso duecento anni tra il Grande Tempio e i Cinque Picchi, dove aveva cresciuto Fiore di Luna e allenato Sirio. La sua vita era colma di avvenimenti, ma il mondo restava a lui ignoto.
Per questo, nonostante tutto, Asgard lo affascinava. Era diversa da tutto ciò che aveva visto o vissuto fino a quel momento.
Si alzò lentamente, adagiando la coperta sul corpo massiccio di Aldebaran. Gliela rimboccò come poteva, per non disturbare il suo sonno. Quest'ultimo si rigirò nel letto, facendolo sussultare. Aveva un'espressione corrucciata, tipica di quando dormiva.
Libra sorrise. Potevano essere passati anni, ma avrebbe riconosciuto dovunque le caratteristiche tipiche, i modi di fare di quelli che continuava a considerare i suoi bambini.
Accarezzò la spalla di Aldebaran, dolcemente, poi tornò nel proprio letto.
Si raggomitolò velocemente sotto alle lenzuola, sperando che ciò potesse contribuire a riscaldarle più velocemente. Le palpebre gli si fecero improvvisamente pesanti. Affondò la testa nel cuscino, i capelli che continuavano a solleticarlo sul collo. Li aveva più lunghi, ora e non aveva ancora avuto il tempo di tagliarli.
Avrebbe dovuto fare molte cose, a dirla tutta, ma nessuno dei suoi doveri sembrava interessante abbastanza. Redivivo e libero da ogni legame, aveva perso la motivazione e lo sprono. Solo la lotta, anche immotivata e senza fondamenti, riusciva ad accenderlo ancora. Forse perché lottare era l'unica cosa di cui era capace, l'unico argomento che con lui non aveva segreti.
Tutto il resto era un esperimento fallimentare.
A quale scopo essere tornato in vita, si chiese stancamente, se vivendo doveva portarsi sulle spalle il peso dei rimpianti e dei rimorsi?
Non poteva continuare a condurre un'esistenza agganciata all'anima di un'altra persona, se lo ripeteva spesso. Ma ancora una volta, prima di cadere finalmente addormentato, ripensò a Shion.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di rivederlo.



Fuori dalla finestra proveniva ancora, sommessa e lontana, la musica tradizionale. Mur sedeva sul davanzale, sporto in avanti con le ginocchia strette al petto. Il suo sguardo era vacuo, distante. Ioria dubitava che stesse guardando realmente qualcosa.
"Se c'era lui" commentò, senza staccare gli occhi dal paesaggio che si estendeva sotto di loro - un intricato labirinto di tetti sconnessi e camini fumanti - "Allora vuol dire che c'è anche qualcun altro."
Ioria sospirò. Sapeva che Mur si stava riferendo a Cancer senza che questo specificasse il suo nome. Avevano entrambi subito una sensazione spiacevole, come di abbandono quando l'altro s'era allontanato dalla zona.
Perdere di vista il suo Cosmo era stato come ubriacarsi e subire, successivamente, i postumi della sbornia. Un'esperienza che Ioria aveva provato una sola volta da ragazzo, quando lui e Milo avevano rubato una bottiglia di liquore dagli scaffali alti e se l'erano scolata interamente. Ricordava quella vicenda con nitidezza, non tanto per l'atto in sé, quanto più per le sue conseguenze. Libra non li aveva risparmiati e non l'avevano fatto nemmeno il mal di testa e i conati di vomito.
Si portò le dita alle tempie, sentendole pulsare: "Non lo so, Mur" disse, iniziando a massaggiare.
"Io sentivo solo il suo Cosmo."
"Anche io." confermò il giovane, voltandosi finalmente verso di lui. Il pallore del suo volto era evidenziato dall'evanescenza della luna, che si rifletteva sulla sua intera figura, dipingendolo di chiaroscuri. Le ombre, in contrasto, rendevano le forme del suo corpo e i tratti del suo viso più spigolosi. Inspirò profondamente.
"Ma fino ad ora non me ne ero mai accorto. Magari rileveremo anche gli altri Cavalieri, uno di questi giorni" commentò poi. I suoi occhi verdi, da lontano, sembravano due pozze scure. Proprio come qualche ora prima alla festa, quando le pupille s'erano inghiottite tutto il resto.
Ioria sentiva la testa pulsare.
"Mi piacerebbe davvero." rispose, e fu tutto ciò che riuscì a dire. Lo pensava sul serio, lui stesso avrebbe dato qualsiasi cosa pur di ritrovare i suoi compagni, ma stava incominciando a perdere le speranze. Un tempo asserviti ad Atena, ora che finalmente erano liberi di fare delle loro vite ciò che desideravano, i Cavalieri d'Oro sembravano aver imboccato un'altra condotta.
L'incontro con Cancer gliene aveva dato prova.
Come se potesse leggergli nel pensiero, Mur intervenne: "Cancer è fatto così. Questo non vuol dire che sarà lo stesso anche per gli altri. Virgo, ad esempio..." la sua frase si disperse nel nulla, mentre si portava una mano sotto al mento, contemplativo.
Ioria scosse la testa. C'era anche la possibilità che non tutti fossero stati resuscitati. O che alcuni di loro si trovassero in luoghi sconosciuti, lontani, impervi. Avrebbe voluto far chiarezza su quella questione. Erano davvero tornati in vita per sottomettersi al volere di Odino e debellare la minaccia di Andrés o dietro quell'oscura maledizione che li legava a Yggdrasil si celavano motivi più radicati?
A Mur non lo chiese. La testa gli doleva come se fosse sul punto di scoppiare.
Erano rientrati presto dalla festa, non appena Ioria aveva fatto ritorno dal suo incontro con Cancer. Da quando le loro strade si erano divise quel dolore infondato aveva preso possesso di lui, andando ad espandersi per ogni minuto che trascorreva.
"Forse è meglio che vada a letto." stabilì, un po' per se stesso e in parte anche in qualità informativa, perché Mur se ne avvedesse. Questo sembrò destarsi dai suoi pensieri.
"Oh... certo." gli rivolse un sorriso freddo, tipico di lui. Sembrava non essere in grado di esporsi come avrebbe dovuto, nemmeno con una persona che conosceva da quando era nato.
Ioria si rese conto che avrebbe potuto considerarlo un fratello. Tutti i Cavalieri d'Oro, in fondo, erano fratelli tra loro. Qualcosa prima o poi li avrebbe voluti di nuovo insieme, come ai vecchi tempi. Quel pensiero lo intristì parecchio: era utopico, non vi si potevano riporre speranze.
"Buonanotte, Mur" sussurrò, facendogli un cenno con la mano.
L'altro imitò il suo gesto, ricambiando il saluto.
"Buonanotte, Ioria."



Ioria attraversò il corridoio buio cercando di non fare rumore. Gli sembrava che da ogni suo passo scaturisse un frastuono, ma era ben consapevole di esser suggestionato.
L'atmosfera della casa, la notte, era piuttosto lugubre. Sapeva di sconosciuto, lo metteva a disagio. Le pareti in legno erano troppo strette, recludevano tutto ciò che si trovava al loro interno in una scatola claustrofobica. E là fuori, il freddo spietato. In Grecia era diverso: le case bianche, essenziali e fresche s'aprivano sulla collina con ampie finestre e tendoni di colori differenti. Questi ultimi riflettevano il sole come un caleidoscopio, riempiendo la terra di tonalità accese. Ricordava la sua vita precedente come se la stesse vivendo ancora. Micene, ad esempio. Suo fratello era qualcosa che non avrebbe mai dimenticato: non importava quanto grandi fossero i cambiamenti, quanto lunga l'esistenza che conduceva. Niente avrebbe mai significato tanto quanto lui.
Una pulsazione anomala alla testa lo fece barcollare. Si appoggiò con le spalle al muro, portandosi immediatamente una mano sulla fronte. Solo allora, guardando il proprio braccio che s'illuminava a intermittenza in spirali irregolari, capì a cosa era dovuto quel dolore lancinante: il marchio. Pompava di vitalità, come un cuore. Nauseante e ipnotico, il baluginio violaceo s'allargava e restringeva con un ritmo cadenzato. Sembrava... vivo.
La fastidiosa sensazione di essere violato gli strinse lo stomaco, facendogli salire la bile alla gola.
S'affrettò per il corridoio, oscillando pericolosamente. Lyfia, doveva vedere Lyfia.
La stanza della giovane era accanto alla sua. Non c'era mai stato, perché era rimasto a letto fino a quel giorno, ma spesso la sentiva muoversi al suo interno.
Quando raggiunse la soglia della camera stava ansimando. Armeggiò con la maniglia, le dita che gli tremavano spasmodicamente. Finalmente riuscì ad abbassarla e la porta si aprì violentemente, a causa della pressione con cui vi si era avventato. La stanza era illuminata dal chiarore pallido della luna.
Al suo interno Lyfia, con i capelli sciolti, si stava spogliando.
Le lunge gambe erano completamente scoperte, così come lo era il ventre. Tutto ciò che aveva addosso era la biancheria intima. I suoi grandi occhi viola erano spalancati, le labbra schiuse in un'espressione sconvolta.
Ioria avvampò e si scaraventò immediatamente fuori dalla camera. Richiuse la porta alle sue spalle con un tonfo e vi si appoggiò contro con la schiena, il respiro irregolare.
Avrebbe potuto bussare. Si mise le mani tra i capelli, tirandoli, come se farlo avesse potuto alleviare il dolore alla testa o, al contrario, amplificarlo, punendolo per essersi intrufolato nella camera di una donna in maniera così sprovveduta.
Trascorse un paio di secondi così, in silenzio, il sangue che gli pulsava nelle tempie senza dargli tregua. Quando fece per allontanarsi la porta dietro di lui si aprì. Dal varco che si creò tra essa e il muro Ioria intravide uno spiraglio di stanza, prima che la figura di Lyfia la nascondesse alla sua vista.
"Ioria..." mormorò debolmente. Ora indossava una vestaglia bianca, leggera, che si stringeva sulla vita in un elegante fiocco rosa. Le maniche a sbuffo imitavano la forma della gonna, altrettanto gonfia. In testa aveva una fascia ricamata, che impediva alla frangia lunga di coprirle gli occhi. I capelli erano rimasti sciolti.
Aveva il viso arrossato, ma non sembrava arrabbiata. Ioria la interruppe prima che potesse aggiungere altro: "Mi dispiace." disse, e si maledì per aver pensato di andarsene senza nemmeno chiedere scusa. La giovane scosse la testa: "Non ti preoccupare, non è niente."
"Se avessi bussato-" si intromise lui, ma Lyfia si portò un dito sulle labbra, intimandogli di fare silenzio. Rimasero fermi a guardarsi, entrambi a disagio. Poi la donna si slanciò verso di lui, allungando le mani sul suo viso. Improvvisamente la sua espressione si era fatta allarmata: "Il marchio!" esclamò. Le sue dita gli sfiorarono le guance, ma si ritrassero velocemente, come se fosse timorosa di scottarsi. Ioria portò una mano nel punto in cui lei l'aveva toccato, e sentì un vivido palpitare sotto i polpastrelli. Trasalì.
"Vieni" gli intimò Lyfia, afferrandolo per un polso e trascinandolo nella camera. Era pulita, in ordine. Aveva un buon profumo di fiori, lo stesso che caratterizzava la giovane. Le pareti in legno erano spoglie, così come gli scaffali e le mensole. Sul comodino erano sparsi una manciata di gioielli, a contornare un'abat jour accesa che espandeva la sua scarsa illuminazione in un alone dalla circonferenza ridotta.
Lyfia lo fece sedere sul letto e gli ordinò di rimanere fermo. Ioria obbedì, guardandola mentre armeggiava con una borsa di tela appoggiata sul tavolino. Quest'ultimo era accostato al muro, in un angolo, e per questo restava al buio.
Oltre a fargli male, ora, la testa gli girava. Di tanto in tanto aveva l'impressione che l'immagine della giovane in vestaglia bianca, di fronte a lui, si duplicasse. Si prese la testa tra le mani e chiuse gli occhi.
Dopo un po', il rumore distante di cianfrusaglie mosse alla rinfusa si placò. La mano fredda di Lyfia si posò sulla sua, facendolo sussultare. "Purtroppo l'acqua della fonte curativa non ha funzionato" iniziò, sottolineando un fatto di cui Ioria era già a conoscenza. Di ritorno dal suo incontro con Cancer aveva infatti scoperto che Mur e Lyfia si erano prodigati in diversi tentativi, ma che nessuno aveva dato il risultato sperato. Il marchio era ancora lì, tangibile.
"Ma forse questo unguento allevierà il dolore. Vuoi provare?"
Ioria sollevò la testa. Nella mano libera, Lyfia teneva una bacinella di legno. In piedi di fronte a lui, tutta in bianco, sembrava brillare di luce propria. Ioria si ricordò della sua pelle nuda, delle sue forme morbide e generose e di nuovo il sangue gli affluì sul viso.
Cercò di distogliere lo sguardo dalla sua figura armoniosa, ma qualcosa lo manteneva incollato ad essa, come se fosse catalizzatore di tutti i suoi interessi.
"Ioria?" lo appellò lei, sbattendo le palpebre. Le lunghe ciglia creavano un'ombra suggestiva sui suoi zigomi, velandoli sensualmente.
Lui si costrinse a guardare altrove. "Certo, certo." biasicò incespicando.
Lyfia allora si inginocchiò accanto a lui, sul letto. "D'accordo allora. Dovresti..." con un dito lo indicò sul petto. Ioria abbassò lo sguardo, per cercare di capire cosa stesse puntando. Senza riuscirci risollevò il capo, confuso. Gli sembrò che le gote della ragazza si fossero accese.
"La maglia" tentò nuovamente lei, muovendo l'indice avanti e indietro. Lui allora comprese.
"Oh. Devo toglierla?" chiese, portando le mani sui lembi del maglione. Lyfia annuì in difficoltà.
"Suppongo di dovertelo. Almeno siamo pari." sdrammatizzò Ioria, sollevando l'indumento sul petto, e sfilandoselo da sopra la testa. La pelle, messa a nudo, si tese per il freddo.
Anche così, con la stanza illuminata appena dalla luna e dalla luce della lampada, il marchio violaceo saltava immediatamente all'occhio. Sembrava un tatuaggio: si agganciava morboso alla sua muscolatura, seguendone i contorni con il suo viscido moto rotatorio.
Senza nemmeno chiederlo, diede le spalle a Lyfia. Lei fece un respiro profondo, che Ioria attribuì allo sconcerto che doveva provare nel trovarsi di fronte una stigmata simile.
"Fa' pure." la autorizzò, piegandosi in avanti.
La giovane esitò, poi le sue dita intrise d'unguento si posarono su di lui.
"Poi lascerai che mi occupi anche del davanti." mormorò, la voce scossa. Sapeva che a Ioria non piaceva particolarmente essere toccato, specie nelle zone più sensibili. Ogni volta che si offriva di trattarlo, lui si faceva scostante. All'inizio non glielo concedeva minimamente. Negli ultimi tempi si prestava ai suoi controlli, ma quella era la prima volta che si faceva effettivamente medicare dalla ragazza. Prima di quel giorno, i rimedi studiati da Lyfia per alleviare il dolore del marchio erano stati miscele ingeribili o pietanze ricavate da erbe curative.
Mai niente che involvesse l'applicazione diretta sul fisico.
Il suo tocco era piacevole, delicato. Percorreva la linea dura della colonna vetrebrale con le dita, poi opponeva una leggera pressione sulle scapole, disegnando cerchi concentrici sulla sua pelle. Ioria sospirò quando arrivò a toccarlo alla base della schiena.
Improvvisamente, la testa si era fatta leggera. Non sapeva se fosse a causa della distrazione, o per merito di quell'unguento miracoloso.
"Di questo non me ne hai mai parlato..." disse, irrigidendosi mentre le mani della giovane si soffermavano sui fianchi.
"Di cosa?" chiese Lyfia. Il tono era vago, come se fosse concentrata su altro. Effettivamente sembrava davvero coinvolta in quello che stava facendo.
"Questo rimedio. Non lo abbiamo mai provato." rispose Ioria, chiudendo gli occhi. Di tanto in tanto le unghie di lei lo graffiavano involontariamente, suscitandogli brividi freddi.
"E' perché non mi avresti mai concesso di provare."
Lyfia sembrava divertita e premurosa allo stesso tempo. Era incredibile come, in pochi giorni, il loro rapporto si fosse evoluto. Tenevano l'uno all'altra come se si conoscessero da una vita, legati da una promessa e dal desiderio di ricambiare la benevolenza altrui nel migliore dei modi.
Trascorsero un po' di tempo in quel modo. Lyfia applicò l'unguento sulla sua schiena e quando ebbe finito le pulsazioni del marchio s'erano placate, così come il dolore alla testa. Ioria si voltò sul letto, provocando il frusciare delle lenzuola. Si ritrovò faccia a faccia con la ragazza.
I loro visi erano piuttosto vicini. La luna illuminava solo una parte del viso di Lyfia. La luce dardeggiava nel suo occhio viola, rendendo tutto ciò che era in ombra opaco e quasi intangibile. Ma era lì, di fronte a lui, e Ioria lo sapeva.
Allungò una mano sul suo viso e la sentì inspirare profondamente.
D'un tratto si fermò, le dita a pochi centimetri dalla sua pelle. Per quanto il suo profumo fosse ammaliante e la scollatura della vestaglia - che si apriva sull'incavo dei seni - invitante, non aveva motivo di farlo.
/Fare cosa?/ Si chiese, come se lui stesso non fosse realmente consapevole di ciò che si stava apprestando a compiere.
Si allontanò di scatto, facendo sussultare Lyfia. Era rimasta a fissarlo con aspettativa mista a stupore, mentre ora gli stava rivolgendo un'occhiata allarmata.
"Cosa succede? Fa male?" domandò, alludendo al marchio. Stringeva la bacinella d'unguento con entrambe le mani.
Ioria scosse freneticamente la testa, indietreggiando ancora sul letto. "Non è quello... anzi, grazie a te va molto meglio."
"E allora cosa..." la frase di Lyfia si disperse nella stanza. Lei stessa non sembrava in grado di trovarle un proseguo adatto. La sua espressione tradiva una certa delusione, oltre che una più che giustificata confusione.
Ioria si alzò dal letto, barcollando leggermente. Prese con sé il maglione che aveva abbandonato sul cuscino, anche se non accennò a infilarselo.
Lyfia si issò in piedi ansiosamente, parandoglisi davanti. "Aspetta, non ho finito!" esclamò allarmata, sollevando l'unguento come per ricordargli l'incombenza di cui si era preso carico.
Ioria la scostò ugualmente e camminò verso la porta della camera. "Il marchio si è quasi dissolto, non ne ho più bisogno."
Lyfia gli camminò accanto, affannata.
"Ma-"
"Lyfia." Ioria si voltò verso di lei, l'espressione dura. Anche la voce, seppur involontariamente, era risuonata troppo rigida.
La giovane s'era immobilizzata sul posto, e questo lo indusse ad ammorbidire i toni.
"Sono solo molto stanco... vorrei andare a letto." si giustificò, sforzandosi di sorridere. Non era molto sicuro del risultato: l'espressione di Lyfia era rimasta imperturbabile, ferita ma in qualche modo anche estremamente assente.
Dopo un po' si riscosse, scrollando l'intero corpo come se, un attimo prima, fosse in balìa di una forza estranea. "D'accordo... allora buonanotte." sussurrò piano, con un tono difficile da interpretare. Ricambiò il sorriso di Ioria che, dopo aver atteso qualche secondo e risposto al saluto, uscì dalla stanza.
Quando la donna fu finalmente fuori dal suo campo visivo, la mente lo riportò alla medesima scena, quella che un attimo prima aveva interrotto. Questa volta di fronte a lui c'era una giovane dai capelli verdi, che le accarezzavano le spalle mossi. Il corpo ingabbiato nell'armatura non lasciava intravedere le forme, anche se Ioria era ben consapevole della loro presenza. Mediterranea, rigida e guerriera, Tisifone era a un passo dalle sue labbra nello stesso modo in cui, un attimo prima, lo era stata Lyfia. Così come spesso era stato anche per Castalia.
Le due donne avevano significato tanto per lui, in passato.
Violando le leggi del Grande Tempio erano state entrambe sue amanti, in confidenza l'una con l'altra e disposte a portare avanti quella storia, appoggiando rispettivamente la presenza reciproca nella vita di Ioria.
Ecco cos'era la forza che l'aveva indotto a fermarsi, un attimo prima che baciasse Lyfia.
Il rimorso. Quel dolore lancinante che il tempo spacciava per cicatrizzato, ma che dentro lo faceva sanguinare ancora. Deglutì, riscoprendosi la gola arsa.
/Mai più/, si era detto. Con la testa nuovamente pesante, si diresse in camera propria.
E mai più sarebbe stato.

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