— The Hades Chapter: Interlude (PROLOGO, parte 1) —


Cadeva tutto. Intorno a lui, dentro di lui.
Sentiva i pezzi del mondo che crollavano inesorabilmente ai suoi piedi e oltre, frantumandosi sul pavimento. Gli sembrava quasi di vacillare, benché non fosse possibile. Il suo corpo immobile veniva percorso da una respirazione artificiale, una gabbia e un ostacolo per tutti e cinque i sensi. Non avendo modo di esternare alcunché, Pegasus rimaneva immobile e lasciava che tutto, dentro e fuori, si sgretolasse.
La sagoma sbiadita di Andromeda, chino su di lui. Le grida furiose di Ikki, che rimbombavano nell'ambiente circostante. Il corpo di Crystal che si abbatteva al suo fianco, con un tonfo sonoro. E poi altre grida, questa volta di Sirio, che cercava di placare la situazione. Le braccia di Andromeda avvolsero la sua sagoma immobile, in un tremore non controllato che lo faceva sembrare così se stesso da provocare a Pegasus una fitta dolente al cuore.
Avrebbe voluto chiamare il suo nome, ricambiare quella stretta così gentile e protettiva, tranquillizzarlo.
Ma non riuscì a fare nulla di tutto questo. Nemmeno le labbra risposero allo stimolo. Sebbene l'intento fosse quello di schiuderle per parlare, queste rimasero serrate.
Così, Pegasus si deteriorava anche dall'interno. Vedeva la vita senza farne parte, vedeva i suoi amici distruggersi giorno dopo giorno senza avere la possibilità di fare qualcosa per evitarlo. Sentiva ciò che avevano da dire sul suo conto, le cattiverie che si sputavano addosso l'un l'altro e non riusciva nemmeno a versare una singola lacrima per espiare i loro peccati. Un tempo era un eroe. O forse si era semplicemente convinto di essere tale. D'altra parte, quale eroe fa promesse che sa di non poter mantenere?
"Va tutto bene Pegasus, non ascoltarlo. Ikki fa così solo perché è stressato" sussurrò in quel momento Andromeda, piano.
Doveva sembrare che non gli importasse affatto, perché non rispose. Non poteva farlo, eppure avrebbe voluto che il ragazzo comprendesse quanto le sue parole valessero. Non gli scivolavano addosso, come appariva sicuramente dall'esterno. Gli entravano dentro, invece e pompavano il suo debole cuore più di quanto non lo facesse il sangue nelle vene, l'ossigeno nei polmoni.
"Lo so" avrebbe voluto dirgli. "Non è colpa tua, non è colpa sua, non è colpa vostra." Invece rimase indifeso nella sua stretta protettiva.
E dire che un tempo era Andromeda ad aver bisogno di essere protetto. Come aveva potuto, Pegasus, lasciarlo solo?
Un tempo non temeva nemmeno la morte, e tutt'ora credeva che ci fosse qualcosa di molto peggio. Morire rimanendo in vita, guardare i suoi amici continuare a vivere senza di lui o non riuscirci affatto, sempre a causa propria.
Questo, ad esempio.
Con il mondo in crollo tutt'intorno a lui, e il cuore che lentamente si distruggeva in mille pezzi.
Impotente e così traboccante di emozioni da sentirsi esplodere per tutte le volte in cui non riusciva ad esternarle.
Se avesse avuto la possibilità di parlare in quel momento, cos'avrebbe chiesto? Pegasus si sentì tremare, anche se fu solo una vaga e flebile percezione.
"Lasciatemi morire."
Perché non sarebbe più riuscito a guardare in faccia i suoi compagni, dopo averli ridotti in macerie.
E perché il peso di quell'esistenza che sapeva di morte era troppo insopportabile, anche per lui.


* * *


In confronto alla prigione in cui Kanon era stato recluso per anni, quel luogo buio e senza fine appariva quasi accogliente. Quando ancora possedeva il dono del tatto, poteva sentire freddo. E le onde impervie dell'oceano lo facevano rabbrividire, infrangendosi sul suo corpo debole. Poteva respirare, e inalava quantità d'acqua che gli facevano sentire la testa pesante. Poteva percepire l'acre sapore di sale e perdere in continuazione il senso della vista, perché totalmente annegato. Ed era completamente solo. Non un respiro familiare, non una presenza, che fosse amica o nemica. Aveva vissuto di una solitudine che lo aveva reso più folle di quanto già non lo fosse, affogato, oltre che dall'oceano stesso, anche dai rimorsi e dai rimpianti.
Lì, ora, anche privato dei sensi, della dignità, della vita stessa... non era solo. Impercettibili e lontane, le spire di Cosmo dei suoi compagni ardevano debolmente nei loro corpi. Kanon non poteva provare caldo, ma il ricordo di quella sensazione regnava vivo dentro di lui.
Anche nel silenzio, l'eco delle colpe da imputarsi veniva zittito dai sensi di colpa altrui. Quella prigionia puniva tutti loro allo stesso modo. Gli Dei credevano di averli condannati alla peggiore delle pene, ma in mezzo a quella straziante sofferenza non avevano fatto altro che unirli sempre di più.
Loro, i Cavalieri d'Oro, erano accomunati dalle stesse emozioni, vittime dello stesso scherzo del destino, peccatori in egual modo per aver errato in nome della loro natura umana e non in quello divino della Dea Atena.
Obbligati a vedersi, senza potersi percepire, continuavano ad affidarsi alla presenza altrui per andare avanti.
In quell'oblio senza inizio né fine, ciascuno di loro aveva zittito le proprie colpe per ricongiungersi, almeno spiritualmente, ai suoi compagni. Come avrebbe dovuto essere, e come era sempre stato.
Micene lo diceva sempre: c'era qualcosa di più grande a volerli insieme, qualcosa che faceva in modo che, qualunque strada ciascuno di loro intraprendesse, prima o poi si sarebbe ricongiunta a quelle intraprese dagli altri, e sarebbero stati destinati a rincontrarsi.
Il ricordo dell'uomo che più di chiunque altro aveva amato si impossessò di lui, facendolo tremare dalla testa ai piedi.
Nonostante fosse proprio lui a proclamare quel genere di stupidaggini sul loro legame mistico, Micene non era lì. C'era un modo per rivederlo? Cosa aveva fatto sì che lui non fosse finito lì con loro? Eppure... l'immagine di Micene che impugnava l'arco, tendendo la freccia con le mani di tutti loro a infondergli la forza necessaria a spalancare il portone dei Campi Elisi, gli affiorò alla mente, nitida come se si fosse trattato di un fatto accaduto di recente. Anche la sua cognizione del tempo era andata disperdendosi. "Micene..." mormorò, abbassando lo sguardo.
Al posto della superficie buia che fungeva da pavimento, però, si ritrovò faccia a faccia con la sagoma di Milo, appena visibile in quella densa oscurità. Il più giovane aveva la testa premuta contro al suo petto e gli occhi impastati di un sonno tormentato, appena socchiusi e rivolti verso di lui.
L'espressione, di solito rigida e autoritaria, era piena di dolore. Il suo corpo nudo aderiva a quello di Kanon in modo impudico e sfacciato, senza che però nessuno dei due potesse trarne alcuna sensazione. Il desiderio, però, quello non era minimamente attenuato.
Kanon scacciò dalla mente i pensieri impuri e cercò di concentrare le sue attenzioni sul turbamento dell'altro.
"Non... pensavo fossi sveglio." disse, con un tono di voce incolore. Non riusciva mai a comunicare con Milo come avrebbe voluto.
Questo annuì stancamente, senza smettere di guardarlo.
"Dovresti riposarti".
"Ho già riposato" ribatté il più piccolo, scostandosi una ciocca di capelli blu sulla spalla. "Ma è difficile" aggiunse infine, sospirando.
Kanon non poteva dargli torto. In quella gabbia non c'era distinzione tra giorno e notte e il suo spirito faticava ad adeguarsi alle leggi temporali di un luogo che, il tempo, non lo conosceva affatto. "Mi sembri distrutto" osservò, allungando una mano sul suo viso. Milo non fremette neppure, impossibilitato a percepirne il tocco.
"Non è a causa della stanchezza." rispose. Perlomeno la sua espressione sembrò distendersi un poco. "E non lo sono quanto te."
Kanon storse il naso. Non era mai riuscito a nascondere all'altro le sue emozioni, meno che mai ora, quando entrambi non avevano niente che li distogliesse dal guardarsi insistentemente negli occhi, cercando di salvarsi a vicenda mentre si scavavano disperatamente dentro.
Avrebbe voluto rispondergli che se lo meritava, ma lo sguardo di Milo si era subito fatto intimidatorio, per prevenire che pronunciasse quella frase tanto abusata.
"Stavo solo... ricordando" disse quindi, vago. Non volle rivelare all'altro quale nome portassero i suoi ricordi.
Milo lo sapeva già. Nei suoi occhi balenò un lampo di immensa tristezza, ancora più profonda di quella che già glieli cerchiava di nero.
Istintivamente, Kanon rafforzò la presa intorno alla sua vita. Avrebbe voluto sentire i suoi capelli solleticargli le braccia. Avrebbe voluto regalargli una vita felice. Era stato causa di tutti i mali che si erano abbattuti su di lui ma, nonostante questo, Milo lo aveva perdonato. Anzi, lo aveva salvato. L'aveva fatto rinascere, dando un senso alla sua nuova esistenza.
Il più piccolo si tirò su, senza divincolarsi dalla sua presa. Se avesse posseduto ancora il tatto, Kanon avrebbe potuto chiaramente percepire il suo respiro sulle labbra.
"Non credi che parlare con Saga ti farebbe bene?"
Lo disse in un sussurro, per evitare che il diretto interessato potesse sentirlo. Probabilmente era lì, da qualche parte, forse ancora sveglio. Era difficile da stabilire, a causa della scarsa luminosità.
Un tenue dardeggiare di luci rossastre, a richiamare le fiamme infernali, era tutto ciò che avevano a disposizione per cercare di rilevarsi.
Kanon, a sentire il nome del fratello, provò una morsa al cuore.
"Ci ho già parlato" mentì immediatamente, perché Milo non cogliesse la sua esitazione. A dire il vero, non aveva fatto altro che guardarlo. Lui e Saga si fissavano con un'intensità senza pari, a lungo, senza proferire una sola parola. Nel tremore degli occhi del fratello, Kanon leggeva le sue sofferenze. Avrebbe tanto voluto avvicinarlo, dirgli che non lo odiava per quello che aveva fatto, che biasimava anche se stesso per ciò che era avvenuto e che aveva uno sfrenato, intenso bisogno di lui.
Nonostante ciò aveva sempre ammutolito i suoi pensieri, lasciandoli taciti negli angoli remoti della sua mente. Saga stava soffrendo quanto lui, se non di più.
Probabilmente, vista la solitudine a cui s'era condannato, era ancora attorniato dai sensi di colpa per essersi macchiato del nome di traditore, per aver combattuto i Cavalieri d'Oro e, ancor prima, per aver ucciso Micene e Shion.
Milo sbuffò, gonfiando una guancia. Così sembrava davvero più giovane, nonostante i segni del tempo e dei combattimenti, che irrigidivano i suoi lineamenti. Era pur sempre appena ventenne, e in quelle condizioni, spogliato della sua armatura e della sua aura austera, somigliava sempre di più al bambino che era stato.
"Andiamo, non ti sei staccato da me nemmeno per un secondo, da quando siamo qui" disse, con un certo orgoglio. Lo stava, probabilmente, considerando un vanto. Il suo debole per Kanon era andato rafforzandosi, ora che i ruoli erano tornati quelli di un tempo.
Questo lo fece sorridere.
"E' perché voglio proteggerti." ribatté, muovendo la mano sulla sua schiena.
L'espressione di Milo sembrò illuminarsi, anche se fu per pochi secondi. Ritornò immediatamente crucciato, come se fosse una costrizione a cui rispondere.
"Resta il fatto che hai bisogno di parlare con qualcuno. Libra non-" Kanon gli coprì la bocca con la mano, forse un po' troppo bruscamente. Come una stilettata, il dolore gli pervase il costato, facendovi rimbombare il cuore a vuoto.
Libra.
A lui non aveva nemmeno rivolto un'occhiata, troppo timoroso di vedere cosa ci fosse nello sguardo dell'uomo. Odio, forse. Un sentimento più che giustificato, considerato ciò che Kanon gli aveva fatto.
Ma era pur sempre una sensazione che non avrebbe mai voluto provare: vedere gli occhi di colui che era stato come un padre, e successivamente un amante, per lui, che bruciavano di astio e risentimento. Kanon era un codardo, e non era pronto.
"Voglio solo..." mormorò, scostando la mano dalle labbra dell'altro, che era rimasto immobile e lo scrutava da sotto la frangia lunga, interrogativo.
"Restare con te." ammise, indugiando con le dita sulla sua pelle. L'aveva percorsa così tante volte da riuscire a ricordare la sua morbidezza. Poteva quasi trasporla sulla sua immagine lì, in quel momento e fingere di percepire quella delicatezza, il calore che scaturiva ovunque lo toccasse.
Milo arrossì, ma non fece niente per impedire a Kanon di continuare. Forse anche lui, nella mente, stava cercando di rimembrare tutte le sensazioni provate in vita.
Restare con lui... quello era il desiderio del servitore fedele che Kanon aveva scelto di essere, ma anche quello dell'uomo che l'aveva cresciuto, e forse amato.
I sentimenti che provava nei confronti di Milo erano incognita e chiarezza allo stesso tempo, una tempesta di emozioni che trovavano risposta solo nel continuare a vivere con lui, per lui.
"Anche io" mormorò Milo, dopo un po' di tempo trascorso in silenzio. Poggiò la fronte sul petto nudo di Kanon e si insinuò meglio tra le sue gambe.
Quest'ultimo non fece in tempo a parlare, che l'altro lo stroncò. "Restare con te..." disse, nascondendo il viso nell'incavo della sua spalla.
"Per sempre."
Kanon sentì tutti i suoi timori aggrovigliarsi in un'unica massa di dolore e sollievo.
L'eterna lotta tra l'abituarsi, l'accontentarsi e il desiderare qualcosa di meglio infuriò dentro di lui.
Voleva che quel sogno di sconfinata felicità si consumasse in un posto che sapesse di vita, e lo voleva per sé, ma soprattutto per Milo.
"Per sempre." confermò ugualmente, poggiando la testa su quella del più piccolo.
Fu solo un'impressione, ma gli sembrò quasi di sentirlo fremere al contatto.

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