— On the Road (Prologo, pt. 1) —


La vita non ha regole.
Sei tu, umano, che poni a te stesso dei freni. E' inevitabile. Diventi succube delle tue stesse leggi e senza che tu te ne accorga quelle stesse leggi limitano la tua vita.
Io... voglio essere libero.
Ma sono umano, ed erro, e ho capito che alle leggi della vita non posso sfuggire nemmeno io.
/Raggiro/.
E' così che ho preso la mia decisione: raggirare questa legislatura e vivere fondando la mia esistenza su tre principi.
Tre regole che non mi vincolano.
Le regole della libertà.

* * *

Regola numero tre: velocità. Sii veloce. Sfreccia, lascia che la polvere del terreno si sollevi dietro di te in un turbine confusionario. Celati. Scappa. Corri.

Regola numero due: rischio. Metti la tua umanità sull'orlo di un precipizio. Buttati. Gettati. Vivi per il vento e la libertà, lascia che siano questi a dettare il tuo destino. Non tirarti indietro.

Regola numero uno: sopravvivi.


[ARIZONA, HISTORIC ROUTE 66]
Kai bevve un ultimo sorso d'acqua dalla borraccia ormai vuota. Si asciugò le labbra con la manica della giacca e la passò successivamente a Miwa. Questo ridacchiò nervosamente, rigirandosela tra le mani.
"Finita. Un'altra, eh? Kai, moriremo di sete". commentò.
"Te ne ho lasciato un goccio" ribatté Kai, come se il disappunto di Miwa dipendesse da quello.
Naturalmente non era così, e ne erano consapevoli entrambi.
Da almeno due giorni, non riuscivano a trovare un posto che fosse definibile abitato, né un punto di ristoro in cui fare rifornimento e procurarsi le vivande necessarie per tirare avanti. Se l'erano cercata, naturalmente, ma ciò non implicava che dovessero patirne le conseguenze così in fretta.
Kai aveva un'enorme responsabilità. E, malgrado tutto, anche un forte senso di colpa, che lo inacidiva quando si ritrovava a fare i conti con Miwa. Sembrava perennemente arrabbiato con lui - e forse in parte lo era - e il suo migliore amico ne risentiva parecchio.
"Certo, certo" commentò infatti quest'ultimo, evidentemente a disagio. Si portò la borraccia alle labbra ed ebbe anche la faccia tosta di fingere che dentro vi fosse ancora acqua a sufficienza perché potesse dissetarsi. Si impegnò a rigirare la lingua al suo interno, dentro e fuori come se stesse /davvero/ assaporando qualcosa.
E nel mentre guardava Kai, fintamente compiaciuto, annuendo con un ostentato fare concitato che lo innervosì ancora di più.
Quando ebbe finito con la sua messinscena, Miwa tornò serio.
"Grazie, Kai." disse, accennando un sorriso che non gli illuminava veramente il viso. "Ma la prossima volta lasciamene di meno, non vorrei che tu rimanessi a bocca asciutta."
Di nuovo serio, gli lanciò la borraccia.
Kai la afferrò appena prima che questa potesse colpirlo in pieno viso.
/Irritante./
Stava diventando davvero irritante.
"Miwa" pronunciò, cercando di farlo suonare più neutrale possibile. "Ripetimi un'altra volta CHI ha deciso di seguire CHI."
Il migliore amico sussultò sul sedile biposto della loro Harley Davidson, colto alla sprovvista. La sua espressione si velò di qualcosa di indecifrabile, un tono amaro che Kai ultimamente gli vedeva spesso in viso.
Miwa si ridestò quasi subito, e gli rivolse uno dei suoi fastidiosi sorrisi taglienti:
"Di certo non sono io quello a cui è venuta la malsana idea di girarsi gli Stati Uniti in moto." stabilì, incrociando le braccia al petto.
Kai sospirò. Riecco i sensi di colpa che affioravano violenti alle porte della sua mente. Non riusciva a scacciarli, proprio come non era riuscito a escludere Miwa dalla sua vita. Era stato inevitabile e catastrofico. Quando aveva deciso di andarsene, di lasciarsi tutto alle spalle per perseguire nel suo folle ideale di libertà, non aveva messo in conto l'incognita perenne della sua esistenza: Miwa.
Miwa che si era arrabbiato, che aveva addirittura pianto e puntato i piedi per terra, pur di farlo desistere dalla sua iniziativa.
Miwa, con cui era cresciuto e col quale condivideva inevitabilmente anche il più stupido e insignificante segreto. Miwa, che non si era allontanato nemmeno quando era stato Kai stesso a chiedergli esplicitamente di farlo. Non se n'era andato e non aveva motivo di farlo ora.
Per questo Kai aveva lasciato che lo seguisse.
Anche volendo, non aveva avuto modo di persuaderlo. Miwa s'era appostato sulla sua Harley Davidson e aveva inchiodato il suo petto alla schiena di Kai, allacciandosi con le braccia ai suoi fianchi. E, con la testa sulla sua spalla, gli aveva detto: "Vengo con te".
Kai non lo voleva. Ma aveva realizzato, in quello stesso istante, che /non l'aveva mai voluto/.
Quella negazione, nella sua vita, aveva mai comportato qualcosa di più della semplice consapevolezza di /non desiderare/ qualcosa?
Oppure Kai, nel suo aggressivo tentativo di tenere alla larga tutto e tutti, aveva semplicemente accettato che quella barriera fosse stata valicata da qualcuno?
Non qualcuno.
Miwa.
"Solo tu." mormorò, distrattamente.
Miwa piegò la testa di lato: "Eh? Il caldo ti ha dato alla testa? TU, tu hai deciso di partire per...
... per questo... questo viaggio e..."
Kai non lo stava più ascoltando. "Miwa" lo chiamò, cercando di zittirlo.
Quello, stizzito non gli diede retta e continuò a blaterare a vanvera. Kai scosse la testa e si arrese ai suoi rimproveri. Aveva tutti i diritti di sfogarsi. Forse l'avrebbe fatto stare meglio. Il cielo nel frattempo stava acquisendo sfumature violacee. Il tramonto nell'Arizona era sempre mozzafiato, nonostante Kai fosse ormai abituato a vederlo. Quel cielo terso era lo sfondo del loro viaggio. Quelle luci suggestive gli suscitavano violenti brividi sottopelle.
"Kai..." mormorò Miwa in quel momento. Kai si voltò e lo riscoprì calmo, con l'abituale sorriso stampato in volto. Tra le mani teneva il suo casco, e sembrava che glielo stesse porgendo. Probabilmente era così. Kai avanzò verso la moto: "Cambi umore facilmente"
"Ho la fortuna di non essere nato monoespressiv- scherzo! Scherzo Kai!"
Miwa fece per proteggersi, ma Kai si limitò a fulminarlo con lo sguardo e a strappargli di mano il casco.
"Dà qua." borbottò "Dobbiamo ripartire. Voglio trovare un posto più agiato se vogliamo passare la notte fuori".
'Vogliamo' non era il termine corretto. Era una costrizione dettata da forze superiori.
Con un sospiro montò in sella, e Miwa si fece più indietro per lasciargli spazio. Quando Kai si fu sistemato, gli si avvinghiò alla schiena e si appoggiò a lui.
"Andiamo, Kai. Ma mi devi qualcosa per tutte le notti in cui mi stai costringendo a dormire per terr..." il rombo tuonante della Harley Davidson coprì il resto della sua frase.
Certo di non poter essere visto, Kai sorrise.
Ne aveva davvero abbastanza delle lamentele di Miwa.



[ARIZONA, HISTORIC ROUTE 66, ROADKILL CAFE]
Ren Suzugamori aveva vent'anni, e lavorava a tempo pieno nel Roadkill Cafe, di cui suo padre era proprietario e gestore.
Era un locale tradizionale, situato lungo la Route 66 e abbordabile per chiunque intraprendesse l'agognata avventura "on the road" che andava tanto di moda negli ultimi tempi.
La sua collocazione era strategica, poiché in un luogo simile non aveva concorrenza se non a chilometri di distanza, e ciò faceva del Roadkill /Il/ locale per eccellenza, per chiunque volesse tornare alla realtà anche solo per una notte.
Ciò avrebbe dovuto fare della sua vita un'esistenza impegnata e piena, ma la verità era che Ren si stancava di tutto e ne aveva abbastanza. Non riusciva ad apprezzare le sue giornate ingabbiate in un posto e in un ruolo che non sentiva suoi e allo stesso tempo ripudiava con tutto se stesso la sola idea di fare ciò che ogni cliente del Roadkill Cafe stava già facendo: viaggiare.
"Ho capito." disse a suo padre, in risposta al lungo monologo di raccomandazioni che aveva appena finito di sfoderargli.
Il lavoro di Ren consisteva nell'esibirsi come cabarettista e svolgere altre mansioni secondarie, tra cui prendere le ordinazioni ai tavoli o presentare gli spettacoli, quando non ne prendeva parte.
"Intratterrò questo... Mitsusada Kenji come si deve" aggiunse, spostando il peso del proprio corpo da una gamba all'altra, contrariato.
"Molto bene." gli concesse il padre, sorridendo. Quell'espressione così serena e pacifica non lo rappresentava davvero. Ren lo sapeva.
Dopo avergli rivolto un cenno del capo si congedò, lasciando l'uomo alle sue scartoffie.
Ancheggiò per il corridoio con un'andatura impettita e, una volta arrivato nel suo camerino, si sbatté poco elegantemente la porta alle spalle.
Tetsu, un uomo che condivideva la stanza con lui, sussultò.
"Non mi sembri molto felice, Ren" stabilì, inarcando un sopracciglio. Quest'ultimo si abbandonò sul letto e gettò la testa all'indietro, ricercando la figura del più grande. Quando riuscì a sintonizzarsi col suo sguardo, storse il naso. "L'ennesima trovata di papà. Sapevi che stasera abbiamo ospiti importanti, no? Pare che io debba essere la portata principale di questo famoso... imprenditore"
Tetsu si accigliò. "Oh... capisco. Hai provato a fargli cambiare idea? L'ultima volta non è andata un granché bene e lo sa anche lui." disse, con la sua voce calda e rassicurante. Ren ridacchiò ripensando alla sua ultima - disastrosa - esperienza con un "cliente speciale".
"Questo è "super speciale"" ribatté, imitando la voce del padre. Sentì che tutta la tensione e il nervosismo precedentemente accumulati stavano a poco a poco svanendo. Tetsu aveva sempre il potere di metterlo a suo agio, anche con la sua sola presenza.
Ren lo conosceva da quando era piccolo. Suo padre lo aveva raccolto dalla strada e gli aveva dato un posto in cui vivere, e da allora lui e Tetsu erano cresciuti come due fratelli. Quest'ultimo non sempre approvava i metodi del padre di Ren, ma la sua gratitudine nei suoi confronti lo limitava.
"Cerca di non strafare." lo ammonì Tetsu, con la sua abituale aria preoccupata. Ren annuì e si tirò su a sedere. "Stai tranquillo".



Il lavoro in nero di Ren Suzugamori non aveva niente a che vedere con quello che faceva abitualmente, eccetto, forse, gli abiti di scena.
A causa del suo aspetto androgino, infatti, sin da quando era piccolo suo padre l'aveva costretto ad esibirsi in vesti femminili.
Il body nero che si era dovuto infilare quella sera era così di cattivo gusto che sarebbe sembrato esagerato persino sul corpo di una donna.
Eppure sarebbe servito a comprarsi quel Mitsusada Kenji, con la sua stupida famiglia che di sicuro non avrebbe sborsato un solo dollaro per finanziare i loschi giri di suo padre.
Ren si prostituiva. Non lo faceva regolarmente, solo in occasioni importanti e ormai non lo trovava quasi più nemmeno disgustoso, ma il solo fatto che dovesse abbassarsi a tanto per compiacere i desideri avari e infondati di quell'uomo lo mandava ancora in bestia.
Quando ebbe finito di sistemarsi le calze a rete, diede le spalle allo specchio immenso del suo camerino e si affrettò a recuperare le scarpe con i tacchi. Le infilò con foga e poi saltellò fino al letto per prendere la felpa. "Tetsu Tetsu Tetsu" chiamò, frenetico.
Questo si affrettò a porgergli la borsa prima che Ren potesse inciampare lungo e disteso a terra. "Fa' attenzione con quei cosi ai piedi" lo ammonì, senza riuscire a trattenere un sorriso. Ren annuì. Non appena ebbe recuperato l'equilibrio si avventò sulla porta lasciandosi alle spalle anche Tetsu. "Ci vediamo dopo" disse ansioso e poi scomparve dietro la soglia, lasciando l'uscio socchiuso.
Doveva fare in fretta. Aveva impiegato troppo tempo ad infilare tutti gli accessori che quel genere di abbigliamento richiedeva e aveva finito per accumulare un piccolo ritardo rispetto all'orario in cui aveva concordato di farsi trovare pronto.
"Merda" bisbigliò tra sé e sé, e proprio mentre si aggiustava gli orecchini finti e cercava nello stesso tempo di sollevare la borsa a tracolla che gli stava scivolando dalla spalla, andò a sbattere contro qualcuno.
L'impatto fu talmente violento che Ren, in un primo istante, perse addirittura la cognizione dei sensi e del tempo.
Fu consapevole solo di ciò che poteva percepire: la sua schiena improvvisamente contro al muro e il corpo di una persona addossato al suo, le braccia che lo tenevano immobilizzato alla parete dietro di lui e il ventre contro al suo bacino. All'improvviso, questo alzò lo sguardo e i suoi occhi profondamente viola fecero saltare un battito al cuore di Ren.
Fu una scarica elettrica così travolgente, quel guardarsi a vicenda che intrappolò il tempo per pochi secondi e fece sì che in quel posto gremito di gente ci fossero solo loro due, così avvinghiati e complici e fortuiti da suscitare in Ren brividi febbricitanti.
Finalmente lo sconosciuto si decise a parlare. La sua espressione mutò velocemente da tramortita a seria, il che premetteva una reazione non del tutto positiva al loro scontro.
Infatti: "Stai attenta a dove metti i piedi" ringhiò, senza però accennare a scostarsi dalla sua
attuale posizione.
Il che era davvero scomodo per Ren, che si ritrovava inarcato e proteso contro di lui, oltre che aggredito e confuso per una donna.
Il fraintendimento dell'altro lo turbò parecchio.
"Sono un maschio, bello." ringhiò, cercando di intimidirlo dall'alto dei suoi tacchi. L'individuo con cui aveva a che fare era /davvero/ basso, al di là dei centimetri che Ren acquisiva grazie alle scarpe. Basso e tremendamente bello, biondo e con un aspetto esotico che lasciava intendere che non fosse di quelle parti. Proprio a causa dell'incongruenza di altezze, le forme di Ren erano ben in evidenza contro al suo corpo. L'altro parve accorgersene, perché reagì alla sua rivelazione lanciando prima a lui, poi al suo pacco uno sguardo sbigottito. "Dio santo", commentò anche, facendo arrossire Ren. Il suo battito cardiaco accelerò e lui d'istinto si appiattì maggiormente contro al muro, in modo da interrompere il contatto tra i loro corpi.
Dio santo. Quella battuta calzava a pennello con il suo stato fisico e mentale. Spettava a lui pronunciarlo.
Eppure tutto ciò che riuscì a blaterare fu un incerto: "T-i spiacerebbe lasciarmi passare? Ho del lavoro da sbrigare."
Solo per un istante, fu l'altro ad esitare. Sembrò essere sperduto nel momento in cui Ren gli rivolse la più che ovvia richiesta di scansarsi, e prima di farlo rimase per un paio di secondi a squadrarlo dalla testa ai piedi. Malgrado l'altezza ridotta, riuscì comunque a mettere Ren in soggezione.
"La prossima volta non correre così tanto se non sai usare i tacchi" suggerì, acido. Poi si allontanò. Ren ebbe l'istinto di inchiodare lui al muro e dirgliene quattro, ma l'incombere del suo dovere lo riportò coi piedi per terra.
A malincuore, gli passò accanto e proseguì in silenzio lungo il corridoio. Cercò di camminare come meglio poteva, nel vano tentativo di farlo ricredere delle sue stesse parole. Ma fallì, perché incespicò nei suoi stessi passi.
"Attento" gli intimò l'altro da lontano, mentre Ren riacquistava l'equilibrio.
"Zitto" mormorò tra sé e sé, abbastanza forte, però, perché anche lui potesse sentirlo.
Se lo lasciò alle spalle e proseguì. Una parte di lui, quella che rispondeva all'istinto, voleva solo tornare indietro e farci sesso fino allo sfinimento. Era la prima e unica volta in cui Ren si concedeva un simile pensiero. Non gli era mai capitato di provare desideri di quel genere, forse proprio a causa della sua repulsione nei confronti di qualsiasi cosa involvesse il suo lavoro secondario. Oltretutto, uno sconosciuto. Ren si sentì arrossire di nuovo per aver anche solo pensato ad una cosa simile. La parte razionale di lui lo ridestò dalla sua confusione e lo fece tornare in sé.
Per una simile esperienza aveva davvero viaggiato troppo con la fantasia e non si era nemmeno accorto di essere arrivato di fronte alla porta della sua Suite. Ora aveva altro a cui pensare. Ad esempio, a come intrattenere Mitsusada Kenji per assicurare a suo padre un finanziamento.
Nonostante ciò, prima di entrare, si voltò un'ultima volta indietro. Il corridoio era vuoto.
Con un sospiro, Ren entrò nella stanza.



Quello che si trovava di fronte a lui era la quintessenza del piacere, in tutte le interpretazioni possibili.
Era un uomo giovane e bellissimo, con i capelli chiari e gli occhi azzurri. Aveva indosso una camicia estremamente aderente e dei pantaloni che gli fasciavano le gambe così impeccabilmente da far credere a Ren di essere assuefatto dalle sue stesse fantasie.
Perché una persona del genere non gli era capitata sottomano neanche nel più sporco dei suoi sogni.
Prima che Ren potesse aprir bocca anche solo per presentarsi, ancora scosso per ciò che si era ritrovato davanti, l'altro parlò.
"Ren... Suzugamori?" accennò, con un tono incerto. La sua voce fu un altro colpo basso. Troppo bella e calda e /calma/. Si impose l'autocontrollo necessario a muovere qualche passo in avanti e, nel mentre: "Sì, sono io" rispose. Non riuscì a suonare > provocante come avrebbe voluto. Aveva la gola secca.
"Mitsusada Kenji?" tentò comunque, rimandandogli il medesimo quesito.
Cercò di ricacciare dentro di sé il pensiero che, irruento, gli stava sfiorando la mente ma quando l'altro annuì non ebbe più dubbi. Andare a letto con un Dio simile non gli avrebbe creato alcun problema. Sorridendo, gli si avvicinò.
"Dimmi un po', tesoro, che ci fa uno spettacolo come te in un locale così fuori moda?" sviolinò, leccandosi le labbra e ammiccando con lo sguardo. L'altro gli rivolse un'espressione perplessa, ma Ren non si lasciò intimorire. Tutti i suoi clienti all'inizio necessitavano di un breve riscaldamento, prima di lasciarsi andare completamente.
"Non fare quella faccia, qui puoi anche essere te stesso" sussurrò.
"Veramente-" cercò di frapporsi l'altro, indietreggiando sul letto sul quale era seduto. Ren non gli diede tempo di sfuggirgli, perché lo afferrò per la cravatta e lo tenne fermo abbastanza a lungo da poterglisi sedere sulle ginocchia.
Era una posizione stimolante.
"Aaaah" commentò, sorridendo perverso. Addirittura si compiacque di essere suonato così troia da eccitarsi da solo.
Mitsusada sembrava davvero sconvolto. Adesso cercava disperatamente di non guardarlo e, allo stesso tempo, di allontanarlo.
/Senza toccarlo./
Ren si rese conto di avere a che fare con un verginello senza speranze, che di sicuro stava sperimentando i primi approcci solo in quel momento. Ci voleva qualcosa che gli desse una svegliata.
"Allora Ke~n~ji come lo preferisci? Violento, dolce, standard, particolare?" domandò, avvinghiandosi al suo collo e passandogli le mani sulla schiena. Inspirando a fondo, si rese conto che anche il suo profumo gli dava alla testa.
E fu anche l'ultima cosa che riuscì a percepire chiaramente di lui, visto che un secondo dopo uno schiaffo quasi lo scaraventò per terra e lo costrinse col la testa rivolta al muro di fianco a lui. Una ciocca di capelli gli ricadde sul viso e sembrò sfregare così forte da fargli bruciare la pelle.
No. Stava bruciando davvero, non era una percezione.
Lui, con il suo abbigliamento indecoroso, a cavalcioni sulle ginocchia dell'uomo più bello che avesse mai visto e con il viso dolorante.
Bruciava.
Come la consapevolezza di ciò che stava per fare e l'impellente urgenza di andarsene via di lì.
"Mi dispiace." disse Mitsusada. Questa volta il suo tono, anche se gentile, era deciso. La sua voce era ancora estremamente bella, ma Ren la trovò fastidiosa.
Fastidiosamente associabile a un uomo, di sicuro più maturo di lui.
"Sembrava l'unico modo per farmi ascoltare" continuò lui, allungando una mano sul viso di Ren. In un altro momento lui l'avrebbe colpita malamente, ma questa volta lo lasciò fare. Si fece accarezzare senza però accennare a voltarsi. Rimase a fissare il muro alla sua sinistra come se, da quell'ostinazione, dipendesse la sua vita.
Non parlò neppure, e ciò probabilmente spronò Mitsusada a proseguire. "Non sono qui per venire a letto con te." disse, scostandogli i capelli scompigliati dal viso.
"Voglio dire, il piano era quello, ma io non sono mai stato d'accordo neppure per un secondo."
Ren fremette. Non seppe dire se per le sue parole, o per il suo tocco gentile.
"Il fatto è che... è il mio compleanno. E mi piacciono gli uomini. Mio padre ne è consapevole e ha voluto regalarmi... beh, tutto questo" spiegò Mitsusada, comprendendo in un gesto con la mano libera l'intera Suite.
"Ha usato questi pretesti come capro espiatorio per avviare trattative con la famiglia Suzugamori, ed io ho finto di dargli corda per non mandare a monte tutto quanto. Lo capisci, no? Sono sacrifici che si fanno per il nome della propria famiglia. Ma non ho mai avuto intenzione di portare a termine la mia parte di lavoro. A lui basta la mia parola. Gli dirò che abbiamo fatto sesso e il gioco è fatto" concluse, arrestando infine il movimento con la mano.
Indugiò ancora un po' sul viso di Ren, poi la scostò definitivamente.
Quest'ultimo si decise finalmente a guardarlo negli occhi. Si voltò e lo fronteggiò con lo sguardo, il viso ancora arrossato.
"Non... non vuoi farlo perché non sono abbastanza attraente?" chiese, d'impulso. Dannazione, bruciava così tanto. Prima lo schiaffo, poi questo.
Non voleva nemmeno portarselo a letto. Per chi diamine s'era conciato e umiliato in quel modo se alla fine non era servito a nulla?
Stare in braccio a Mitsusada Kenji dopo aver ricevuto così tanti colpi bassi era... un colpo basso ancora più intenso. E bruciante.
Mitsusada assunse un'espressione a metà tra lo stranito e l'indeciso. Ad un certo punto, mentre sembrava che stesse decidendo cosa rispondere, addirittura sorrise.
"No, tu sei bellissimo." si affrettò a riferirgli, così spontaneamente che a Ren palpitò nuovamente il cuore nel petto.
"E proprio per questo" continuò l'altro, lanciando un'occhiata d'insieme al suo corpo ancora adagiato sul proprio "Non potrei mai farti una cosa del genere."
Ren improvvisamente comprese tutto. Le sue esitazioni anche solo nel toccarlo, la sua premura, il suo disagio.
Mitsusada Kenji era... una bella persona. Una bellissima persona.
Così bella che lo fece immediatamente sentire marcio e sporco e orribile.
Non ebbe, però, nemmeno il tempo di ribattere alle sue affermazioni perché qualcuno bussò alla porta e lui immediatamente si ritrovò disteso sul letto, con le gambe divaricate e Mitsusada tra esse, a sovrastarlo e schiacciarlo con il suo corpo.
"Cos-"
L'altro gli tappò la bocca con la sua mano e si sporse su di lui. "Per chiunque entri da quella soglia io sto per scoparti e tu lo stai apprezzando, intesi?" il suo respiro caldo gli solleticò l'orecchio. Ren annuì frenetico e non ebbe nemmeno bisogno di simulare il gradimento.
Certo che lo stava apprezzando, dannazione. La sua erezione mal trattenuta dal body stretto lo confermava più che bene. Sperò con tutto se stesso che Mitsusada non se ne accorgesse, preso com'era a concedere il permesso di entrare a chiunque ci fosse al di là della porta.
Così abituato a essere guardato mentre si faceva fottere, non si turbò neanche della tranquillità con cui l'altro invitava sconosciuti in una Suite che di norma apparteneva a Ren e a Ren soltanto. Probabilmente era agitato anche lui.
La porta si spalancò e ne entrò agitata una persona che Ren, con un tuffo al cuore, riconobbe immediatamente.
"TU?!" strillò mentre, nello stesso istante, il tizio sbarrava gli occhi.
"KOUTEI?!?" domandò, con la stessa intensità.
Mitsusada si voltò di scatto. E, quando ebbe incontrato la figura del biondino: "LEON?!?!" urlò, facendo sussultare violentemente Ren.
La porta si richiuse violentemente, con un tonfo e i tre rimasero a fissarsi in silenzio nei chiaroscuri della stanza.

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