Caro Gustavo @GustavoPiga

sottoscriverei volentieri il tuo appello, se non incombesse il “fiscal compact”, se il debito pubblico italiano non avesse raggiunto il livello che conosciamo, se il deficit di bilancio non avesse la propensione ad aumentare ad ogni respiro, se il livello della tassazione fosse identico a quello di altri Paesi simili a noi per struttura economico – sociale, se i servizi pubblici offerti quale contropartita del forte prelievo fiscale fossero – non dico tanto – simili a quelli francesi e via dicendo. Ma purtroppo non è così ed è con questa realtà che dobbiamo misurarsi: non con quella che vorremmo fosse.
Tutto il resto del tuo ragionamento fila. Sul piano teorico. E sul pratico che vedo qualche difficoltà. Aumento della produttività totale dei fattori e di quella industriale, quale presupposto per un aumento dei salari: assolutamente d’accordo. Se partiamo oggi, ci vorrà un po’ di tempo per avere risultati. E nel frattempo? Si sottovaluta la pervicacia di questa crisi. Negli ultimi cinque anni gli investimenti sono diminuiti (dati ISTAT) ad un ritmo medio trimestrale del 4 per cento. In valore assoluto (prezzi 2005) sono ancora del 20,2 per cento inferiori al primo trimestre del 2007. Aumentare la produttività, in queste circostanze, è per lo meno difficile.
Dove sono finiti, quindi, gli animal spirits italiani? Sono scomparsi o non reagiscono, invece, agli stimoli del mercato? Nel primo trimestre di quest’anno il MOL (margine operativo lordo) era pari 33,5 per cento del valore aggiunto (Banca d’Italia – Rapporto sulla stabilità finanziaria, pag. 18) “scendendo al livello più basso del 1995”. Proviamo a calcolarci sopra gli oneri finanziari (circa il 22 per cento). Le tasse pesano per un altro 60 per cento. Con la differenza (18 per cento) dovremmo spesare gli ammortamenti e l’efficienza marginale del capitale (Keynes). Ossia il suo rendimento. Un’equazione impossibile. Possiamo decretare l’eutanasia del rentier, come teorizzava sempre Keynes, ma non andremmo molto lontano.
Ed allora? Occorre intervenire sull’offerta, aumentando il MOL. Se cresce questa torta, gli altri elementi possono trovare una migliore sistemazione. Per farlo occorrono, in prospettiva, maggiori investimenti. Ma il loro volano iniziale non può che essere un maggiore rendimento del capitale investito. Ecco allora il “patto tra produttori”, come è avvenuto in Germania. Si lavora un po’ di più, con un sacrificio limitato, visto la scarsa dimensione del tempo di lavoro (i confronti internazionali non sono poi così attendibili) con l’intesa di partecipare ad un beneficio futuro. Sarà sufficiente?
Il discorso sulla domanda, nelle condizioni date, rischia di essere un problema irrisolvibile in un ottica keynesiana. Ciò che conta non è il basso grado di utilizzazione degli impianti. Questo indicatore è valido nel caso di un’economia competitiva. Se la crisi, invece, nasce da un deficit endogeno il discorso non vale più. Anzi diventa controproducente: se aumentiamo la domanda interna il surplus se ne va, com’è avvenuto nel caso del fotovoltaico, in importazioni. Questo è il punto cruciale da comprendere.
L’attuale domanda, in Italia, corrisponde a ciò che Marx definiva “il tempo della riproduzione necessaria” per la forza lavoro. Equivale cioè alla somma dei consumi delle famiglie e della Pubblica Amministrazione (in questa grandezza comprendiamo ovviamente anche il costo di riproduzione dell’imprenditore). Il potenziale produttivo esistente garantisce un equilibrio? La risposta, purtroppo, è negativa. Il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, negli ultimi 3 anni, è stato pari a circa il 3 per cento del PIL. Ogni anno, pertanto, per sostenere i consumi (e non gli investimenti) dobbiamo chiedere in prestito dall’estero circa 50 miliardi di euro. Stiamo, quindi, vivendo, come hanno fatto gli americani in tutti questi anni al di sopra delle nostre possibilità. Con due differenze: non possiamo stampare lire e non abbiamo la Cina che accumula riserve nella nostra moneta.
Per inciso, questo dato spiega più di altri la nostra fragilità finanziaria. Nel 1997 solo il 22 per cento del nostro debito era in mano ai non residenti. A forza di farci prestare soldi dall’estero, questa percentuale, nel 2010, è raddoppiata (44 per cento), per poi diminuire l’anno successivo a seguito delle vendite che hanno spinto verso l’alto gli spread. Possiamo continuare come se niente fosse? Per farlo dobbiamo pagare dazio, ma le risorse a nostra disposizione si sono esaurite.
Proviamo allora a rovesciare il ragionamento keynesiano. Con un piccolo sacrificio (contratti di secondo livello a vantaggio delle imprese che sono in grado di stare sul mercato,in una percentuale non trascurabile – Ignazio Visco: Economic and policy interconnections in the current crisis) è possibile rimettere in moto il processo di accumulazione. Quindi aumento dell’efficienza marginale del capitale quale condizione per una ripresa degli investimenti. Occupazione che, pertanto, riprendere a crescere e con essa la domanda interna. Mentre l’accresciuta produttività, che è il riflesso di questa inversione di tendenza, spinge verso una chiusura del gap delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. In prospettiva: si esce dalla crisi rendendo partecipe il mondo del lavoro in quest’opera di “ricostruzione”. Cito questa parola tra virgolette per richiamare alla mente quel passato storico che ha fatto grande un’Italia distrutta dalla guerra. Oggi ci vorrebbe un impegno molto minore, solo che se ne abbia piena consapevolezza.

Un saluto

Gianfranco Polillo
#polillo @polillog

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